Britel, «il sequestrato italiano» in carcere dal 2003

C’è un altro «caso Abu Omar» nella storia recente dei rapporti tra l’intelligence italiana e quella americana. Un’altra vicenda in cui, per non guastare i legami di buon vicinato, il governo ha deciso di passare sopra ai diritti di un cittadino italiano. La storia è quella di Abou Elkassim Britel, nato nel 1967 a Casablanca, emigrato in Italia a vent’anni e quindi diventato cittadino italiano con tanto di storia d’amore con una donna, Khadijia Anna Lucia Pighizzini, che dal 1995 è sua moglie. Giusto un mese fa qualche giornale (compreso questo) ha fatto il suo nome in poche righe per segnalare che l’inchiesta bergamasca, che per anni l’ha visto accusato di aver fondato il nucleo italiano di Al qaeda, è stata archiviata. Pochi hanno ricordato che Britel non era in grado di festeggiare: nel 2002 è stato rapito dalla Cia con una «extraordinary rendition» mentre si trovava in Pakistan ed ancora oggi è chiuso in un carcere di Casablanca, perché il Marocco ritiene giusto tenerlo dentro in base a documenti ed accuse che in Italia hanno portato a cestinare l’indagine.
Ieri sua moglie, una italiana convertita all’islam qualche anno prima del matrimonio, si è presentata nella sala stampa della Camera dei deputati spiegando che per lei la misura è colma: «All’ufficio grazie di Casablanca mi hanno detto chiaro e tondo che basterebbe una telefonata dall’Italia, una richiesta anche informale, perché Abou fosse inserito nella lista delle persone che il re grazierà nei prossimi mesi. E’ il minimo che l’Italia può fare per lui, lasciato nelle mani del Marocco senza alcuna assistenza della Farnesina, e per me che sono una cittadina ed una dipendente dello stato italiano visto che faccio la bibliotecaria». A sostenere le richieste di Anna Lucia ieri c’erano i parlamentari di Rifondazione comunista Ezio Locatelli e Francesco Martone. Soprattutto il primo, bergamasco, ricorda bene come tra il 2000 e il 2001 i giornali di Bergamo fossero pieni di titoloni che parlavano dei legami tra Britel ed Al qaeda: «Lo perquisirono qualche giorno prima del g8, perché dicevano che Al qaeda avrebbe sfruttato le manifestazioni di Genova per lanciare sangue infetto contro i poliziotti, dicevano che il suo numero di telefono era stato trovato a Kabul nelle carte di un covo di bin Laden. E quando è stato arrestato Khadija è dovuta fuggire da Bergamo per qualche mese, perché la sua casa era assediata e persino andare a lavoro era diventato difficile». Al fondo di questa storia che riporta alle campagne allarmiste di appena qualche anno fa, rimane la brutta immagine del comportamento italiano con il cittadino Britel. Il 15 maggio 2003, dopo otto mesi di detenzione e tortura in Pakistan e otto mesi in Marocco, l’uomo (elettricista, ma con una passione per la traduzione dei testi islamici a cui aveva dedicato lo sciagurato viaggio in Pakistan) viene rilasciato. Al momento di passare la frontiera con la Spagna, però, i marocchini lo sequestrano di nuovo. L’antiterrorismo italiano lo sa e invia pure una relazione alla Digos di Bergamo: eppure nessuno muove un dito, né il ministero della Giustizia né la Farnesina. «Per quattro mesi nessuno si è degnato di dirci che fine avesse fatto, l’Italia sapeva ma non ha fatto niente né per farlo rilasciare né per aiutarci», spiega l’avvocato di Britel, Francesca Longhi. A settembre scorso la commissione europea sulle Extraordinary renditions ha convocato il legale a Bruxelles per conoscere la storia di Britel: «E’ bastato farlo sapere ai magistrati di Bergamo perché si decidessero ad archiviare una indagine aperta nel 2000 e che dal 2001 non procede di un passo». Ora la mossa toccherebbe al governo italiano.