Nessuno sembra ricordarlo. A Brescia, nel 2000, per la prima volta in Italia un incredibile movimento di migranti protestò per ottenere i permessi di soggiorno. A quel movimento si unì un sindacato, la Cgil. Il segretario della Camera della Lavoro si chiamava, oggi come allora, Dino Greco.
Che cosa ottennero allora i migranti?
Furono 35 giorni intensi. I pachistani cominciarono lo sciopero della fame, poi vennero l’occupazione delle piazze e i sit-in. Il risultato furono i permessi di soggiorno. Ma fu il meno: i migranti entrarono nel processo politico, le comunità etniche imparararono a conoscersi e a rispettarsi.
E il sindacato?
Il sindacato venne dopo. Coordinammo la loro lotta senza interferire nella dinamica. Credo che da questa unione i migranti abbiano tratto dei benefici, ma è anche vero che noi imparammo un mucchio di cose.
Cioè?
Arrivò il messaggio che i diritti sono per tutti o non sono. Il movimento degli stranieri ha dimostrato che diritti e uguaglianza vanno di pari passo.
Che cosa è rimasto a Brescia di quella esperienza?
Non si è perso nulla, anzi, il processo è maturato. Nella provincia di Brescia risiedono 133mila migranti, 120mila dei quali regolari. Sono riusciti a regolarizzarsi nonostante le famigerate leggi del centrodestra, hanno ottenuto i ricongiungimenti famigliari, i loro ragazzi vanno a scuola con i nostri. Alcuni di loro sono entrati a far parte della Cgil, la loro coscienza politica è aumentata a pari passo con la stabilizzazione degli affetti, del lavoro. E il 12-13% degli iscritti al sindacato è straniero, una percentuale che riflette fedelmente le proporzioni tra migranti e bresciani nativi.
L’integrazione, insomma.
Non mi piace questa parola. Preferisco l’interculturalità, il dialogo tra culture. Spesso sono i nativi a rinchiudersi nell’autismo. Occorre evitare l’isolamento.
E’ un rischio a Brescia?
Certo. I migranti trovano casa nei quartieri degradati perché lì gli affitti costano meno. Si fa fatica a capire che il migrante che arriva in Italia non è la stessa persona partita dal Paese d’origine. L’identità del migrante è in divenire, e questo mette in crisi la nostra identità. Allo stesso tempo, non tutti i componenti di una comunità straniera cambiano alla stessa velocità. Spesso la cesura è generazionale: i figli degli stranieri non sono cittadini italiani ma parlano dialetto bresciano. A volte, invece, sono le esperienze lavorative o affettive (un matrimonio con un italiano, ad esempio) che aprono il migrante a nuove identità.
Li vediamo tutti uguali.
Sì, siamo degli ottusi. Non ci rendiamo conto che la maggior parte degli stranieri parlano più lingue di noi, e che sono portatori di ricche filosofie di vita. Pensiamo che le loro donne siano tutte succubi del marito, e invece le senegalesi sono molto emancipate. Ecco perché i test di cittadinanza proposti da Amato mi lasciano perplesso.
Che cosa pensa degli ultimi fatti di cronaca nera?
E’ in atto una strumentalizzazione di stampo repressivo. E’ chiaro che chi ha l’interesse a rappresentare il migrante come portatore di una subcultura da combattere, ora trova maggiori argomenti. Ma posso anche dire che non possiamo nasconderci dietro un dito: lo sgozzamento di Hina apre un problema gravissimo, la libertà delle donne. Dobbiamo partire da qui, dall’emancipazione femminile, senza però intrometterci pesantemente nelle comunità etniche. All’interno di quella pachistana, quella sicuramente più chiusa da questo punto di vista, molte donne condannano il padre di Hina, ma poi lo giustificano dicendo che Hina comunque si stava comportando come una prostituta.
E’ la tragedia di Hina ad aver aperto il dibattito?
Devo dire di sì. Le donne migranti dovranno partire da lei, dalla sua vicenda. Impareranno che la libertà non te la regala nessuno, e dovranno prepararsi a battaglie durissime.
In che modo il sindacato può aiutarle nell’emancipazione?
Sarà molto dura. Le donne dell’Est sono già molto libere. Invece le africane e le asiatiche nella maggior parte dei casi non lavorano fuori casa, relegate in casa a fare le madri e le casalinghe. Vivono strette nella mancanza di lavoro e nella mancanza di cultura e istruzione. Occorre spezzare questo circolo vizioso.
Emanuele Severino dice che Brescia è una città poco sicura.
Mi spiace dirlo ma credo sia paranoia senile. I pregiudizi delle persone si proiettano sugli stranieri, senza una base reale. Brescia è una città sicura. Su una cosa Severino ha ragione: la televisione è diventata una autorità, e se questa autorità martella ogni giorno sui fatti di cronaca che coinvolgono i migranti, è naturale che la gente pensi di vivere in un luogo insicuro.
Brescia, come tante altre realtà provinciali del Nord, ha comunque retto la sfida di una massiccia immigrazione in pochi anni nonostante la Lega, nonostante il razzismo.
Condivido in parte. Nel campo dell’edilizia e dell’agricoltura, ad esempio, la metà dei lavoratori stranieri è ancora irregolare. Mancano strutture di base. Il lavoro da fare è ancora tanto.