Bonificare la democrazia. Quattro ragioni per un No

Il 25 e il 26 giugno gli italiani sono chiamati a votare per approvare definitivamente o respingere la riforma costituzionale varata nella scorsa legislatura dal centrodestra. Noi siamo a favore del no. E lo siamo per quattro ragioni fondamentali.
La prima: la riforma è tecnicamente sgangherata e malscritta, getta lo scompiglio tra i poteri dello stato, configura un bicameralismo asimmetrico che rischia di creare un pericoloso contenzioso tra le due camere, disegna non un meccanismo di «checks and balances», ma un sistema di ricatti reciproci, prevede un federalismo centrifugo che metterebbe a repentaglio l’unità della Repubblica e i vincoli di solidarietà tra le sue parti.
La seconda ragione è che si tratta di una riforma sbagliata politicamente. E’ saggio che le norme fondamentali che regolano la vita collettiva siano condivise da larghe maggioranze, non imposte dall’una all’altra parte. Bocciare questa riforma significa rimettere in discussione anche lo strappo costituzionale perpetrato a suo tempo dal centrosinistra con la cosiddetta riforma federalista.
La terza ragione è che la riforma ripropone quella preminenza personale del capo dell’esecutivo che l’Italia ha già conosciuto al tempo del fascismo e che i costituenti avrebbero voluto scongiurare per sempre. Questa riforma dunque segna la rivincita sulla tradizione e sulle forze antifasciste che scrissero la Carta del ’48 degli epigoni del fascismo, che tali rimangono pur dissimulati sotto spoglie diverse.
La quarta ragione è che la riforma è democraticamente rischiosa: figlia di una cultura agli antipodi di quella da cui scaturì la Costituzione, essa predispone una minacciosa concentrazione di potere nelle mani del capo dell’esecutivo, zittisce definitivamente il parlamento, rende il capo dello stato una figura decorativa, indebolisce le istituzioni di garanzia.
Ecco le ragioni per cui riteniamo che questa riforma vada bocciata: senza «se» e senza «ma».
Senonché, ammesso che ciò avvenga, tutto lascia presumere che una nuova riforma verrà subito dopo messa in cantiere al suo posto. Già si avverte un intenso tramestio in questo senso e i primi segnali di cambiamento di metodo sono stati lanciati: non una riforma imposta dalla maggioranza alla minoranza, bensì una riforma concordata. C’è da rallegrarsene, pur con l’avvertenza che l’adozione di un metodo politicamente meno discutibile costituisce una rassicurazione molto debole. Specie in presenza di interventi dalle parti del centrosinistra che hanno ravvisato nella riforma pecche più estetiche, e metodologiche, che non di sostanza: la riforma del centrodestra sarebbe brutta, e delegittimata dal metodo con cui la si è introdotta, ma la direzione che indica sarebbe quella giusta.
Questa linea di pensiero non stupisce affatto. Trova conferma nelle riforme introdotte nell’ultimo quindicennio, con maggioranze molto larghe, negli assetti del governo locale, ove al capo dell’esecutivo è stata assicurata una preminenza assoluta, emarginando le assemblee rappresentative, incentivando l’involuzione dei partiti a mere agenzie elettorali e abbattendo il sistema dei controlli, tra l’altro con la conseguenza di favorire una crescita incontrollata della spesa pubblica. Tra il riformismo costituzionale del centrodestra e quello di una parte del centrosinistra c’è un’inquietante contiguità culturale, che promette frutti avvelenati qualora, bocciata questa riforma, subito si avviasse quella successiva.
Nel sottoscrivere questo appello noi vorremmo invitare le forze politiche repubblicane ad una pausa e uno sforzo di ripensamento. Le costituzioni, e le regole in genere, si possono benissimo aggiornare. Vanno tuttavia riscritte non solo tutti insieme, ma anche con consapevolezza e prudenza. A partire dalla riforma elettorale del 1993, l’Italia ha conosciuto una lunga e tormentata stagione di riforme d’ogni sorta, che hanno ridisegnato il volto delle istituzioni, a livello nazionale e locale, trasformandola in democrazia maggioritaria. Il fatto stesso che si chiedano riforme ulteriori per perfezionare la cosiddetta transizione dovrebbe tuttavia dimostrare non solo quanto insoddisfacente sia il percorso compiuto, ma come non necessariamente le riforme conseguano gli esiti promessi. Prima di accanirsi in interventi ulteriori, in nuove leggi elettorali e nuovi aggiustamenti, magari incisivi, del testo costituzionale, occorrerebbe dunque ben sapere quali esiti si vogliano conseguire, anzitutto ragionando sull’attuale stato della democrazia italiana. Una legislatura è un tempo sufficientemente lungo per concedersi una pausa di riflessione e avviare un dibattito costruttivo, che eluda i luoghi comuni accumulatisi nell’ultimo quindicennio.
Non è fra l’altro eccessivo sostenere che al momento poco meno di metà degli elettori si sono pronunciati a favore di partiti che disconoscono la democrazia repubblicana: secessionisti, eredi del fascismo e neopopulisti hanno più volte manifestato il loro profondo disprezzo per regole e principi democratici, per le minoranze, per i diritti fondamentali della persona. Ciò non significa che gli elettori condividano gesti e sentimenti di coloro per cui hanno deciso di votare. Ma sono fatti democraticamente devastanti sia la furibonda contestazione dell’esito delle elezioni dell’9-10 aprile scorso, sia il comportamento incivile tenuto in parlamento in occasione dell’elezione del nuovo capo dello stato, sia la minaccia di mobilitare le piazze e di farle marciare verso Roma, sia quella di ricorrere a mezzi non democratici se il referendum bocciasse la riforma. Qualora ulteriormente ripetuti, tali gesti rischiano di inquinare irreversibilmente la cultura democratica e, per intanto, stanno a indicare un problema che prim’ancora di essere istituzionale è politico e democratico.
Come si fa a ricondurre entro la legalità repubblicana una parte così cospicua del sistema politico? Ed è immaginabile di sancire istituzionalmente la preminenza del capo dell’esecutivo con la prospettiva di consegnare tale preminenza a forze politiche la cui affidabilità democratica è a dir poco dubbia? Prima ancora che la stabilità e l’efficacia dell’esecutivo e la compattezza delle maggioranze di governo, il problema italiano è l’agibilità della democrazia. Non sarà il caso di ragionare approfonditamente della bonifica democratica della politica italiana, prima d’immaginare nuove manomissioni della Costituzione?
Umberto Allegretti, Stefano Anastasia, Gaetano Azzariti, Pietro Barrera, Francesco Bilancia, Gabriella Bonacchi, Claudio De Fiores, Alfonso Di Giovine, Mattia Diletti, Mario Dogliani, Angelo D’Orsi, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Maurizio Franzini, Giovanna Indiretto, Laura Lanzillo, Salvatore Lupo, Giacomo Marramao, Paola Masi, Alfio Mastropaolo, Enrico Melchionda, Maria Serena Piretti, Tamar Pitch, Eligio Resta, Claudio Riolo, Gianpasquale Santomassimo, Mario Tronti, Danilo Zolo, Grazia Zuffa