Pioggia di fuoco, raid dal cielo, dal mare e da terra, potenti esplosioni ed enormi nuvole di fumo, palazzi e ponti crollati con decine di vittime, porti e fari distrutti, migliaia di profughi in fuga, uffici e residenze di parlamentari ed esponenti religiosi non solo degli Hezbollah ma anche delle altre componenti sciite – dall’ex leader spirituale del movimento Hussein Fadlallah a quella del presidente del parlamento Nabih Berri, leader di Amal – colpiti nella capitale e in tutto il resto del Libano: dalla zona di confine nel sud, con Tripoli e Sidone, sino a Tripoli nel nord e allo stesso confine con la Siria che avrebbe cominciato a richiamare i riservisti. Il Libano è diventato sempre più un tiro a segno per i bombardieri e i caccia con la stella di Davide mentre il mondo continua a non fare nulla per fermare la mano omicida del governo israeliano e continua invece, come già nel 1982, a porre condizioni alle vittime e a coloro che resistono alla violenza israeliana – allora l’Olp, oggi gli Hezbollah, domani chissà chi – invece che ai carnefici. Carnefici i quali stanno impunemente distruggendo un intero paese e continuano ad occupare in spregio del diritto internazionale territori libanesi (Sheba farm), siriani (il Golan) e palestinesi, a tenere in ostaggio migliaia di prigionieri, a colonizzare la Cisgiordania, a martirizzare la striscia di Gaza e a costruire il muro dell’apartheid. E c’è ancora chi si chiede da dove nasca la violenza in Medioriente. Per rendersene conto bastava guardare ieri i corpi bruciati e senza vita delle 21 vittime del raid israeliano sul villaggio, tra l’altro più sunnita che sciita, di Marawhin, sul confine tra il Libano e Israele. Una vicenda che ben illumina quel che sta avvenendo in Libano. Due giorni fa, terzo giorno dell’offensiva israeliana, l’esercito di Tel Aviv con gli altoparlanti aveva intimato alla popolazione del villaggio vicino al confine (nell’entroterra di Tiro) di abbandonare il paese dov’erano sempre vissuti, perché doveva essere distrutto, come tutti gli altri a ridosso della «linea blu» tra i due paesi. Fulgido esempio di rispetto della Convenzione di Ginevra. I membri di due famiglie del villaggio, gli Abdallah e i Ghanem, ventidue persone, quindici delle quali bambini, sono saliti a bordo di un pulmino e di un altro automezzo e si sono dati alla fuga. Ma dove potevano andare con tutte le strade e i ponti distrutti? Si sono così rivolti ad una vicina base dei caschi blu -sembra francesi- che li hanno messi educatamente alla porta. Forse pensando alla strage del 1996, dieci anni fa, quando la popolazione delle vicina Qana, dopo un analogo ordine israeliano, si era rifugiata ingenuamente in una vicina base dell’Onu pensando di essere al sicuro. Poco dopo l’artiglieria israeliana aveva invece aperto il fuoco bruciando vivi oltre 100 profughi e quattro caschi blu. Il successivo rapporto che accusava l’esercito israeliano, reso pubblico, sarebbe poi costato il posto al segretario generale dell’Onu Boutros Ghali. I due automezzi con a bordo le due famiglie libanesi avevano da poco lasciato la base dell’Unifil quando sono stati centrati, tra le località di Bayada e Shamaa, da due missili israeliani che non hanno lasciato scampo ai passeggeri. Almeno quaranta sono le vittime libanesi, colpiti sulle strade, sui ponti e nelle loro case in questo tragico quarto giorno di guerra. Enormi esplosioni hanno scosso per tutto il giorno la periferia sud di Beirut ed in particolare i quartieri sciiti di Hareth Hreik, colpevole di ospitare molti uffici e residenze di esponenti e parlamentari degli Hezbollah, di Bir Labed e di Ghobeiry dove è stato gravemente danneggiato il palazzo del comune. Le strade di Beirut, praticamente senza più ponti e cavalcavia ridotti a cumuli di macerie sono semideserte. I profughi rimasti senza casa sono già migliaia. E sono stati accolti nelle scuole e negli edifici pubblici e assistiti dalle Ong libanesi e palestinesi. Molti però dormono all’aperto. La pineta di Horsh, vicino a Sabra e Chatila e al cimitero dei «martiri palestinesi» è diventata una sorta di bivacco a cielo aperto. Nei vicini campi palestinesi ci si aspetta di nuovo in peggio e ci si prepara ad una lunga resistenza. Il discorso alla televisione del leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, il suo appello agli israeliani perché accettino uno scambio di prigionieri e l’annuncio di aver colpito con un razzo una moderna motovedetta anti-missile israeliana, semiaffondandola, ha contribuito non poco ad aumentare la popolarità della resistenza non solo tra gli sciiti, cha la sostengono massicciamente, ma anche tra i sunniti e persino in alcuni settori cristiani. Anche considerando che il piccolo Libano sta resistendo alla potenza israeliana assai meglio di tutti gli eserciti arabi messi insieme. La favola secondo la quale Israele attaccherebbe il Libano perché sul confine ci sarebbero gli Hezbollah, smerciabile facilmente all’estero non sembra aver convinto nessuno – se non le destre falangiste, Walid Jumblatt e i prezzolati dalla famiglia Hariri e dai sauditi – dal momento che i libanesi ricordano bene la distruzione della flotta aerea civile nel ’68, tutti gli attacchi degli anni settanta sui campi palestinesi, l’invasione del 1978, l’assedio e i bombardamenti al fosforo con i corpi che continuavano a bruciare anche nell’acqua nell’estate del 1982. Tutti fatti antecedenti la nascita degli Hezbollah. «Il problema non va cercato e risolto in Libano – diceva ieri Qassem Aina coordinatore delle Ong palestinesi – ma in Palestina e nei territori occupati. Qualsiasi soluzione che non parta da qui è velleitaria e fonte solamente di altri lutti». Il dato saliente della quarta giornata di attacchi israeliani è stato l’allargamento degli obiettivi a tutto il paese. Colpito anche, con numerose vittime, il posto di frontiera sull’autostrada Beirut-Damasco pieno di libanesi e stranieri in fuga. Ed in Siria, ma lungo la strada costiera sono anche giunti circa 500 tra italiani e occidentali con un convoglio di nove autobus organizzato dall’ambasciatore a Beirut Franco Mistretta. Investiti dalle bombe anche il porto di Tripoli e la valle della Beqaa dove non è stata neppure risparmiata Baalbek, l’antica città dei templi romani.La resistenza libanese ha risposto ai raid israeliani lanciando decine di razzi Katyusha al di là del confine e colpendo, per la prima volta, la città di Tiberiade dove si sono registrati gravi danni e una ventina di feriti.