Bologna, legale e di governo

Ci sono almeno due poste in gioco nel caso-Bologna che vanno aldilà del caso-Bologna. Una riguarda l’idea di governo, l’altra l’idea di legalità. Comincio dalla prima, che è più semplice. Secondo uno dei refrain che imperversano in questi giorni, l’esperimento Cofferati ha dimostrato una volta per tutte un teorema lapalissiano, questo: la sinistra può fare l’estremista finché sta all’opposizione e parla dalla piazza, ma una volta che va al governo deve governare, levarsi i grilli dalla testa e fare le cose che si devono fare quando si governa. Di qualsiasi colore sia il governo, la governabilità è governabilità, la governance è governance, la sicurezza è sicurezza, la responsabilità è responsabilità, l’equilibrio è equilibrio e se ci vogliono le ruspe contro gli immigrati o il pugno forte contro i centri sociali ci vogliono le ruspe e il pugno forte. Il teorema non è nuovo; nuovo è che a farsene portatori siano molti paladini del bipolarismo come garanzia dell’alternanza. Domanda: se il governo è governo a prescindere dal colore che ha, a che servono il bipolarismo e la competizione fra due schieramenti alternativi? Tanto varrebbe farla finita con questa finzione e computerizzare la funzione di governo, un bel robot e via, con gli stessi imput, le stesse priorità, la stessa bussola fissa sul centro moderato e sulle sue ossessioni.

Ma che dovrebbe fare un robot con la legalità? Facile, applicare le leggi, senza se e senza ma, così come sono e senza guardare in faccia nessuno.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe, non in un campo di rom ma fra i proprietari di case in affitto in una città come Bologna, o, per guardare più in alto, nei vertici di governo in un paese come l’Italia. E qui si dimostra un altro teorema lapalissiano, questo: che la legalità è legalità, ma i criteri e le priorità con cui la si applica, a livello locale, nazionale e internazionale sono politici. Si può cominciare dai lavavetri o dai proprietari di case. Dalle bottiglie di birra o dalla mafia. Dai clandestini o dal cpt di Agrigento. Dai ladri di biciclette o dal conflitto d’interessi. Dai centri sociali o dalle guerre preventive: questione di scelte.

Questo per dire che siamo tutti d’accordo che la legalità è uno dei due pilastri (l’altro è la legittimazione popolare, ovvero il voto) di una repubblica costituzionale, ma non siamo affatto tutti d’accordo sul rapporto che c’è fra legalità, potere e politica della trasformazione (se ancora ce n’è una).

In un paese come l’Italia in cui l’illegalità è al potere, e chi è al potere urla da alcuni lustri che gli bastano i voti e della legalità se ne infischia, è giusto e dovuto pretendere che il potere si sottoponga al vincolo della legge. Ma non è né giusto né dovuto imbrigliare nella legalità qualsiasi forma di pressione sociale o di politica, per quanto moderata, del cambiamento, che ha l’obbligo non di subire ma di spostare i confini della norma e gli equilibri sociali che la norma produce.

Sergio Cofferati è convinto del contrario, tanto da sostenere, contro un paio di secoli di storia, che tutta la vicenda del movimento operaio è una vicenda di lotta dentro le regole, per le regole. Il che inquieta ma non stupisce, se si considera la vicenda politica di Cofferati scremandola dall’investimento immaginario di cui la sua figura era stata fatta oggetto pochi anni or sono. Ma dovrebbe interrogare molti che a quell’investitura avevano partecipato agitando in buona fede la bandiera della legalità non contro i rom ma contro palazzo Chigi. Forse quella bandiera è venuto il momento di issarla con qualche criterio.