Bolivia, l’indio presidente nuovo colpo ai piani di Bush

L’America Latina continua a voltare pagina. Ma la vittoria di Evo Morales, primo capo di stato indigeno nei cinque secoli del nuovo mondo, sconvolge ogni disegno politico dell’altra America. Un terremoto che è quasi l’ultimo respiro del liberismo imposto negli anni ’70 dal laboratorio dei Chicago’s boys, e che il presidente Bush ha provato a rianimare nel mercato comune del Nafta, ma poca speranza perché le frontiere aperte dall’Alaska alla Terra del Fuoco all’egemonia economica di Washington, nessun governo ormai le vuole. Solo Messico e i paesini dell’America Centrale per il momento non possono dire di no. La continuità formale dell’egemonia disegnava presidenti di grinta, purtroppo non militari, rafforzati dall’ossessione di Fondo Monetario e Banca Mondiale. Un mese fa i fischi di Mar de La Plata hanno accompagnato il presidente americano nelle piazze di ogni America. Ritorno a casa amaro; declino che annunciava i tumulti del vertice di Honk Kong.
Ma se il rifiuto di Argentina, Brasile, Uruguay, Cile, avevano acceso la luce rossa, era un rosso tutto sommato «educato», morbido nei distinguo dei codicilli che annunciavano il no. Solo la frangia di Chavez rimbombava. La novità del Morales presidente sprofonda la diplomazia Usa nel caos. Un «indio negro», populista da far impallidire le abitudini venezuelane: ha sepolto i concorrenti, bene educati nelle università californiane, con milioni di voti. Insospettati. Nessuna ricerca li aveva previsti (lo davano al 38%, ha vinto con la maggioranza assoluta, oltre il 50%) ed è l’inquietudine più allarmante. Esiste una maggioranza silenziosa che l’emarginazione imposta ai popoli indigeni ha nascosto nella paura. E nella diffidenza. La rete Usa non se ne era accorta. E nei prossimi mesi votano indigeni e mezzi sangue di Perù ed Ecuador. In Bolivia hanno parlato con le schede malgrado la commissione elettorale filtrata da esperti nordamericani avesse escluso dal diritto al voto 900 mila aventi diritto colpevoli di abitare le regioni fedeli a Evo Morales.
«Non lo voglio presidente», annunciava in ogni Tv, fregandosene delle regole, la candidata della Bolivia a miss Universo poche ore prima che si aprissero le urne. «Sono bianca, parlo inglese, vivo a Santa Cruz che è una città civile e non un pueblito indiano. Non sanno scrivere e non rappresentano nessuno: loro possono votare l’indio negro. Io no». Voce della Bolivia che ha sempre maneggiato il potere per conto dell’altra America. Invece l’indio negro ha stravinto. Da ieri mattina le Tv sarcastiche usano la deferenza dovuta al primo cittadino: «Don Evo ha ricevuto le congratulazioni del nunzio apostolico e degli avversari sconfitti». «Don Evo», in poche ore. Adesso cosa farà ?
L’allarme delle diplomazie sconfitte riguarda la frammentazione di un Paese che ha 9 milioni di abitanti, quattro lingue diverse nella babele soprattutto indigena. Parlano male ( o non parlano ) spagnolo, ma per guaranis, quetchua e aymara è ancora più difficile intendersi fra loro. Morales li ha riuniti nella battaglia in difesa della coca «non per il consumo, non da vendere ai narcos, ma che è lecito coltivare per mantenere la tradizione e favorire gli usi commerciali». Coca vuol dire pane nella nazione più disastrata delle due Americhe. Haiti non viene nemmeno considerata, ormai al di sotto delle illusioni di riscatto. Se l’orrore per un leader che faceva campagna elettorale nella nome della polvere bianca dava colore alle cronache dei giornali, la concretezza degli gnomi dell’energia tremava per altre ipotesi: gas e petrolio. Un po’ d’argento, stagno e ciò che resta dell’oro dopo la spogliazione dei secoli spagnoli. Morales ha gridato nelle piazze che nazionalizzerà tutte le risorse. Soprattutto quelle energetiche, privatizzate nel ’98 da Hugo Banzer Suarez, generale che ha governo la Bolivia per 9 anni con la ferocia del dittatore e per 9 anni da presidente eletto nella paura. E sono arrivate le solite sorelle: Repsol ispano-argentina; Pan American scatola che porta ad altre scatole controllate dai petrolieri Cheney, Bush e Runpsfel, Washington che si allunga alla signora Rice e a figure minori; Total francese, soprattutto la Petrobras oggi nelle mani di Lula, ma al tempo della concessione influenzata dal presidente Cardoso «sincero amico di Banzer». Petrobras è il gigante che pesca più di ogni altro nei pozzi boliviani: il 25% delle esportazioni energetiche attraversano il confine brasiliano, mentre oleodotti e gasdotti sono in costruzione sia verso il Brasile che verso l’Argentina. Economisti dei due paesi in allarme moderato: sia Kirchner che Lula si sono subito dichiarati «molto contenti» della vittoria di Morales, amico incontrato quando le piazze boliviane ribollivano col suo nome nel 2002. La notizia della vittoria ha depresso le azioni Repsol: meno 1,5 nei primi minuti e la discesa continua. Economisti argentini e brasiliani stanno discutendo su cos’ha in mente il nuovo presidente mentre conferma la promessa della nazionalizzazione «per vendere ad un prezzo adeguato una ricchezza che appartiene al popolo boliviano». Solo l’1% della gente che ha votato ha un fornello a gas.
Morales può scegliere, dopo il 2006, quando scadranno le concessioni, fra i due modelli di nazionalizzazione: modello brasiliano con Petrobas che accoglie capitali privati e apre a nuovi investimenti fissando i prezzi di vendita. Modello Petrolio del Venezuela, nel quale predomina l’inclinazione allo statalismo anche se Chavez si comporta sul mercato come «un qualsiasi venditore interessato ai buoni affari». Il problema che agita gli Usa è proprio questo, la coca resta lo schermo delle prime pagine ma nei discorsi concreti ci si preoccupa del destino del petrolio, soprattutto del gas: la Bolivia ha riserve seconde solo al Venezuela. Controllarle vuol dire determinare lo sviluppo e la libertà di un Paese. Sviluppo e libertà che negli anni hanno portato la Bolivia alla disperazione. Chavez usa le risorse in modo spregiudicato: prezzo di mercato con gli Usa, prezzo politico a Paesi proibiti come Cuba. E poi compra 600 milioni di dollari di bonus del debito argentino permettendo a Kirchner di liberarsi della tutela di fondi monetari e banche mondiali. Nella geometria macroeconomica 9 milioni di poveri non sono gran che. E Morales potrebbe consolarli con ragionevole rapidità, rafforzando la sua presenza e cementando il blocco degli indipendenti che ormai domina il sud del continente. Non solo il Sud. Chaco Alvarez, politico argentino che a La Paz guida gli osservatori del Mercosur, ha subito chiesto a Lula e Kirchner di coinvolgere Morales nel meeting dei presidenti dei Paesi guida del mercato comune. Ormai è uno loro, non importa se formalmente siederà sulla poltrona solo il 22 gennaio. La poltrona dell’ultima stanza al primo piano del palazzo Quemado. Studio del mappamondo, per il mappamondo gigantesco alle spalle del presidente. Che dovrà guardarsi da altri intrighi. L’intrigo di una deregulation degli stati petroliferi: Santa Cruz e Taripa hanno votato il referendum dell’indipendenza. Solidarietà tra stati ladini della pianura. Gli indios vivono sugli altipiani. E poi gli intrighi di una Bolivia che ha conosciuto 194 colpi di stato, militari organizzati da ombre straniere. Ipotesi meno facile di un tempo: gli andini hanno fatto scappare 3 presidenti negli ultimi tre anni e bocciato il presidente superstite che non è riuscito a battere il loro indiano nero. E poi se in Cile si conferma la Bachelet il cono sud del continente latino diventa regione politicamente compatta, meno facile da sconvolgere.