Bolivia in rivolta, ore contate per Mesa

A La Paz e in tutto il paese la mobilitazione popolare rende sempre più probabili le dimissioni del presidente

Il gas La nazionalizzazione degli idrocarburi è la richiesta irrinunciabile. La mediazione della chiesa quasi fallita. La ricca Santa Cruz assediata dai campesinos indigeni

Le ore del presidente Carlos Mesa sembrano contate. Le mobilitazioni popolari e il blocco delle strade per chiedere l’assemblea costituente e la nazionalizzazione degli idrocarburi sono diventate ancor più massicce ieri in tutta la Bolivia, mentre la chiesa tentava una difficile mediazione basata sulla convocazione di elezioni anticipate rispetto al 2007. A questa proposta si è detto favorevole anche Evo Morales, deputato del Mas e leader cocalero: «Mesa e i presidenti di Camera e senato, Mario Cossio e Hormando Vaca Diez, devono presentare le loro dimissioni nelle mani del cardinale Julio Terrazas», ha detto, aggiungendo che lo Stato «deve prendere possesso effettivo dei pozzi di gas e petrolio e nazionalizzzare di fatto gli idrocarburi».

La rinuncia dei leader del parlamento è un passo necessario in quanto la legislazione boliviana non consente l’anticipo del voto, per cui questa ipotesi implica che se ne vadano coloro che si trovano nell’immediata linea di successione costituzionale così che, alla fine, il presidente della Corte suprema possa convocare nuove elezioni. Ma sono in molti a chiedere che se ne vadano anche tutti i parlamentari, che sono stati eletti prima della «guerra del gas» dell’ottobre 2003 che portò alle dimissioni del presidente Sanchez de Lozada e non rappresentano più il quadro politico del paese.

Dalla mattina di ieri, da El Alto, la città che domina La Paz, decine di migliaia di abitanti e lavoratori – che da due settimane sono in sciopero generale per esigere la nazionalizzazione del gas – sono scesi un’altra volta verso la sede del governo, in una delle mobilitazioni più forti dall’inizio della crisi. Gli alteños hanno mantenuto il blocco dell’impianto di Senkata, intorno a cui hanno scavato buche per impedire l’uscita dei camion cisterna, ciò che sta provocando scarsità di combustibile alla sede del governo. Intanto stanno aumentando i prezzi dei prodotti di prima necessità a causa della mancanza di rifornimenti. Nei quartieri popolari di El Alto i dirigenti dei comitati di sciopero cominciano a prendere coscienza dellla forza messa in campo da questo enorme agglomerato indigeno situato a 4000 metri di altitudine e contiguo a La Paz, mentre nei dibattiti si comincia a parlare della questione del potere. E ora?, era la domanda ricorrente fra gli abitanti che si apprestavano a scendere nella capitale.

Nella Plaza de los Heroes, in centro, si è tenuto un’assemblea popolare per decidere sui prossimi passi. «Cosa vogliamo, compagni?», chiedeva il leader della Central Obrera Boliviana, Jaime Solares, e la moltitudine rispondeva con un assordante: «La nazionalizzazione». «Loro continuano a usare ogni tipo di machiavellismo per tenersi le nostre risorse e continuare a beneficiare le compagnie transnazionali, ma noi non lo permetteremo. Vogliamo recuperare tutte le risorse naturali boliviane e la mobilitazione continuerà», ci ha detto il leader campesino Gualberto Choque. Intanto i coltivatori di coca che seguono Morales – uno dei movimenti sociali più coesi del paese – hanno anch’essi cominciato il blocco della strategica strada Cochabamba-Santa Cruz, nella Bolivia centrale. Una ventina di camion sono partiti dall’altipiano diretti a La Paz trasportando 2000 indigeni ayamara della provincia radicale di Aroma: «Stiamo lottando perché i nostri figli abbiano un pezzo di pane, se sarà necessario distruggeremo la Plaza Murillo», il cuore della capitale dove si trovano le sedi del potere politico.

I blocchi stradali sono arrivati fino a Santa Cruz, nell’oriente ricco e «bianco», impegnata più che mai nella sua offensiva autonomista. La città è praticamente accerchiata dai campesinos che si oppongono alle direttive del Comité civico cruceño, in cui vedono la mano dell’oligarchia imprenditoriale. I campesinos minacciano di occupare i pozzi petroliferi della zona e la tensione crescente rende probabili scontri cruenti fra i campesinos e gli indigeni da un lato – molti di loro immigrati dell’occidente andino del paese – e le forze d’urto del Comité civico, come la Union Juvenil Cruceñista, dall’altro. Ieri pomeriggio, questo gruppo paramalitare e razzista ha cercato di impedire l’ingresso in città dei campesinos, così come aveva fatto nei giorni precedenti quando aveva provocato diversi feriti. Le élite di questo dipartimento hanno convocato unilateralmente un referendum autonomista per il 12 agosto, un passo a cui si oppongono con forza i movimenti sociali dell’occidente che vi scorgono un intento secessionista delle oligarchie locali per avere il controllo delle risorse naturali, prevalentemente gas, petrolio e terre. Uno dei nodi della crisi attuale è proprio la difficoltà di articolare la visione «liberista» dell’oligarchia imprenditoriale dell’oriente con la visione «nazionalista» delle maggioranza indigena e popolare dell’occidente.

Nel pomeriggio di ieri circolavano insistenti voci di dimissioni di Mesa e di elezioni anticipate. Lo stesso presidente del Congresso, Vaca Diez, ha rafforzato queste voci con le sue dichiarazioni alla Bbc secondo cui «Carlos Mesa è pronto a rinunciare». Da parte sua il parlamento, oggetto della rabbia popolare, ha cessato i lavori fino a nuovo ordine, mentre i manifestanti si accingevano ad «accerchiare» la Plaza Murillo di La Paz.«E’ chiaro che siamo arrivati al momento del collasso dello Stato e ormai non basta più nemmeno l’uscita di scena di Mesa. Ci vuole l’assemblea costituente», ci ha detto l’analista politica Alvaro Garcia Linera. Il vero nodo è come «disattivare» la richiesta di nazionalizzazione del gas, che ogni giorno prende più forza.