Il gobierno popular del compañero Evo Morales ha «rivoltato la frittata». Dal primo maggio – data emblematica delle festa dei lavoratori e dei primi cento giorni dall’entrata al Palacio Quemado di La Paz del primo presidente indio: lui – l’82% dei proventi del petrolio e del gas boliviani andranno allo Stato, attraverso la compagnia rinazionalizzata YPFB (Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos), e il 18% resteranno alle imprese transnazionali.
Dopo il ’97, quando lo sfegatato neo-liberista Sanchez de Lozada aveva privatizzato tutto – dall’acqua al gas: l’ultima risorsa dopo il grande e plurisecolare saccheggio -, era l’esatto contrario: l’82% di profitti alle compagnie (e senza contare la voce storicamente sostanziosa del contrabbando), il 18% alle rachitiche casse dello Stato. In soldoni voleva dire 780 milioni di dollari contro 140. Dopo la «guerra del gas» dell’ottobre 2004, con relativa cacciata e fuga (a Miami) di Sanchez de Lozada, e prima che la bomba del gas scoppiasse fra le mani anche dell’onesto ma pallido Carlos Mesa, il referendum sulla «rinazionalizzazione» del giugno 2004 aveva portato quei 140 milioni di dollari a 460. Qualcuno, aveva gridato al «tradimento» di Evo, allora ancora leader cocalero e del Moviemiento al Socialismo, che aveva sostenuto il sì alla proposta. Adesso, tre mesi dopo l’insediamento, la frittata e le proporzioni si sono capovolte. I 780 milioni di dollari l’anno andranno alla Bolivia, anzi, per la prima volta, ci resteranno e non per finire – si suppone e si spera – nelle mani di militari nazionalisti ma generalmente golpisti o dell’oligarchia bianca, come era stato per le altre due o tre nazionalizzazioni tentate. Ma – si suppone e si spera – nelle mani di un governo popolare eletto da e fatto di organizzazioni sindacali e movimenti sociali in prevalenza indigeni che si sentono e sono stati sistematicamente esclusi fin dall’indipendenza,nel 1825.
La mossa di Evo ha preso tutti di sorpresa – dalle compagnie transnazionali ai campesinos dell’altipiano, dai governi di riferimento di quelle compagnie all’oligarchia criolla. Nei suoi primi tre mesi di governo, aveva mostrato molta moderazione e prudenza. All’estrema sinistra sindacale e india già lo si metteva in graticola, non solo per la rinazionalizzazione del gas che aveva promesso – con qualche margine di ambiguità – in campagna elettorale.
Ci si aspettava una suo mossa light
che esigesse una spartizione della torta meno iniqua e neo-coloniale ma lasciasse intatte le intoccabili leggi del «mercato» nei paesi periferici. Invece il «decreto supremo 28701», accompagnato dall’«occupazione» dei campi petroliferi e gasiferi da parte dei militari e dal limite di 180 giorni dato alle compagnie per rinegoziare i nuovi contratti, più duro di così non poteva essere. Ora la palla passa alle compagnie e ai relativi governi. Prima di tutto quelli «amici» di Brasile, Argentina e Spagna. Le prime reazioni non sono incoraggianti. Anche tralasciando quelle, penose, dell’uccellaccio del malaugurio europeo, il «socialista» spagnolo Javier Solana (così duro con il boliviano Morales e così morbidamente cieco sui voli segreti della Cia), le big dell’energia – Total, Exxon Mobil, British Gas, Shell…- hanno reagito con durezza prevedibile. Fin qui nulla di nuovo. Ma bisognerà vedere la risposta di Lula (la Petrobras conta per il 20% del Pil boliviano), di Kirchner e Zapatero (la ispano-argentina Repsol è la seconda per business) hanno riunito i loro governi in sedute d’emergenza. Si vedrà presto cosa risponderanno a una mossa concreta e sacrosanta, anche se non piacevole, dopo tante belle parole sulla solidarietà con i paesi del sud e sull’integrazione latino-americana.
Quello di Evo Morales è un passo deciso e decisivo verso la rottura di quel modello neo-liberista che ha sconquassato l’America latina negli ultimi 30 anni. Ma è un passo ad altissimo rischio, economico e politico. In altri tempi non lontani a quest’ora i tank sarebbero già nella Plaza Murillo di La Paz. Forse è anche il segnale di rottura della nuova onda di (centro)sinistra latino-americana: Chavez, Fidel ed Evo (che è andato a firmare un «accordo strategico» a tre solo pochi giorni fa all’Avana) da una parte – quella radicale-; Lula, Kirchner e l’uruguayano Tabaré Vazquez dall’altra – quella ortodossa. Ma di questa eventuale non si potrà incolpare l’indio Evo Morales.