Bolivia al voto, in pole position l’indio Morales

Ley seca, il divieto di alcolici, proibizione di circolare alle auto non autorizzate, chiusura di cinema e locali pubblici. Sembra quasi il coprifuoco in vista delle elezioni di oggi, importantissime sia per la Bolivia sia per l’America latina. Invece l’aria, oltre che rarefatta, è tranquilla. I due candidati principali, Evo Morales a sinistra e Jorge Tuto Quiroga a destra, hanno trascorso vigilie diverse. Uno nel suo feudo cocalero del Chapare e a Cochabamba inseguito da frotte di giornalisti stranieri accorsi in massa per toccare con mano il primo indio-indio (non come il peruviano Alejandro Toledo, l’indio fasullo «che veste Armani») in predicato di diventare presidente della repubblica più india dell’America latina e di provocare seri grattacapi all’amministrazione Bush nonché al suo «vicerè» David Greenlee, l’ambasciatore Usa qui a La Paz che governa un’ambasciata inzeppata di 1800 funzionari, la più grande dell’America latina e una delle più grandi del mondo dopo quella di Baghdad. L’altro a scalare i 6 mila metri di uno dei vulcani qui intorno, anche lui faticosamente inseguito da qualche spericolato cameraman pronto a tutto. A riscaldare l’atmosfera ci ha pensato il Dipartimento di stato Usa che, prontissimo ad accusare di «interferenze» illecite il venezuelano Chávez (la cui ombra ormai è avvistata dappertutto) e il brasiliano Lula per avere manifestato il loro appoggio a Morales, già due volte in questa settimana è intervenuto pesantemente ad ammonire i boliviani. Prima, a Washington, ha diffuso un comunicato in cui si mettono in guardia i cittadini Usa dal venire o muoversi in Bolivia perché qui potrebbe succedere il finimondo. Poi, un paio di giorni fa, il portavoce della signora Rice è stato ancor più greve affermando che «prima vediamo chi viene eletto, quale sarà la sua politica anti-droga e dopo decideremo che rapporti stabilire con quel paese». Più che una «interferenza», una minaccia secca di tagliare i 90 milioni di dollari annuali che Washington passa alla Bolivia per la guerra contro la coca, nel caso – è chiarissimo – venga eletto il cocalero Evo Morales.

La fuga di Sanchez de Lozada

Le arroganti interferenze degli Stati uniti non sono una novità da queste parti. Nel 2002, quando Evo Morales si presentò candidato per la prima volta contro il «loro agente a La Paz», Gonzalo Sánchez de Lozada, l’allora «vicerè» Usa Manuel Rocha, definì pubblicamente il leader cocalero «il bin Laden andino» e disse senza giri di parole che se lui fosse stato eletto la Bolivia poteva scordarsi gli aiuti americani. In realtà fu un boomerang perché Evo perse per un pelo e fu eletto il «gringo» Sánchez ma, nell’ottobre dell’anno dopo, dovette scappare in fretta a furia a Miami. Gli americani e le élites bianche di qui – di La Paz e soprattutto di Santa Cruz e Tarija, i dipartimenti orientali straricchi di gas – tifano in modo sfegatato per Tuto Quiroga, il distinto giovanotto made in Usa (ha studiato in università americane, ha lavorato con il Fondo monetario e la Banca mondiale…) che è un cavallo sicuro. E non da adesso. Quando, giovanissimo, era nell’Adn, il partito proto-fascista dell’ex golpista degli anni 70 Hugo Bánzer, fu presidente per un anno, dal 2001 al 2002, dopo che Bánzer, democraticamente eletto nel `97, fu costretto da un tumore a gettare la spugna. Allora il Washington Post scrisse che Quiroga era «uno dei leader boliviani più rispettati a Washington». E tale è rimasto dopo la sparizione di fatto dei partiti tradizionali – l’Adn di Bánzer, l’Mnr di Sánchez e il Mir dell’ex presidente Paz Zamora -, come l’uomo che ha saputo coagulare dietro di sé la vecchia e nuova destra boliviana.

Il nervosismo degli Usa è giustificato. Perché questa volta Evo Morales, divenuto nel frattempo un leader nazionale e una delle star del movimento no-global internazionale, può farcela. E nel caso, anche se e proprio perché verrebbe dopo Chávez in Venezuela, Lula in Brasile, Kirchner in Argentina ,Vázquez in Uruguay e (vogliamo crederci?) Michelle Bachelet in Cile, sarebbe una première assoluta. Sia qui in Bolivia – il primo indio, «senza titoli di studio» ma non fasullo, in 180 anni d’indipendenza – sia in America latina – un altro anello, e molto simbolico, di una catena che si allunga. In Bolivia e forse anche fuori, stando ai sondaggi e agli umori, sembrano tutti convinti o rassegnati a un Evo presidente, non oggi perché il 50% dei voti appare lontano, ma in gennaio quando il parlamento «dovrà» nominarlo.

L’incognita del dopo-elezioni

Quello che accadrà dopo è un’incognita. E’ probabile che la Bolivia esca ancor più spaccata, etnicamente e politicamente, dalle elezioni generali di oggi e che l’ingovernabilità – 5 presidenti in 5 anni – continui, perché il Movimiento al Socialismo di Morales e il Podemos di Quiroga si spartiranno il grosso dei 130 deputati del nuovo parlamento e la gran parte dei «prefetti» (i governatori dei 9 dipartimenti) dovrebbero essere con Tuto. Per questo sono in molti a chiedere anche qui una grande coalizione, a cominciare da Roberto Mustafá, il presidente della Confindustria locale, e forse anche dai militari, che in un paese in cui i golpe sono di più dei 180 anni d’indipendenza, sembrano ora i garanti della legalità istituzionale e dell’unità del paese. Un’ipotesi al momento irrealistica, visto l’abisso politico e anche etnico che divide i due candidati.

Salvo sorprese dal voto di oggi e in attesa dell’assemblea costituente che dovrà «rifondare» la Bolivia, i collas – gli andini scuri di pelle di etnia quechua e aymara – dei dipartimenti di La Paz, Cochabamba e Oruro riverseranno in massa il loro voto su Evo mentre gli altri 6 dipartimenti, ma soprattutto i cambas di Santa Cruz e Tarija – i bianchi di origine europea o araba che esigono l’autonomia e minacciano la secessione – voteranno per Tuto. Quel che accadrà domani si vedrà. Oggi sarebbe di straordinaria importanza la vittoria di Evo Morales.