Bolivia a due dimensioni

Fin da giovane la sua vita è stata marchiata dalle mobilitazioni indigene, la sua ossessione articolare marxismo e indigenismo. Ciò che ha portato Alvaro Garcia Linera a capeggiare, insieme a Felipe Quispe, una guerriglia aymara conosciuta come Esercito guerrigliero Tupac Katari (Egtk) che gli è costata quasi cinque anni di carcere. Al calore delle successive crisi, Garcia Linera si è trasformato in uno degli analisti politici preferiti dai media e uno dei più entusiasti propulsori dell’Assemblea costituente. La vita gli ha tracciato sentieri imprevisti e dalla presidenza del Congresso gli è toccato il compito di elaborare la legge che convocava la costituente. In questo dialogo, il vicepresidente della Bolivia riflette, con gli strumenti del sociologo, sul processo di cambiamento che vive il paese andino.

Quale il suo bilancio delle elezioni dello scorso 2 luglio?
Ho una lettura molto ottimista. In primo luogo abbiamo rischiato di sottoporre a un plebiscito il nostro governo dopo soli cinque mesi: abbiamo visto le elezioni per la costituente come un plebiscito sulle misure intraprese dal governo, e il risultato è più che confortante, con più del 50% dei voti.

Anche se il Mas non è arrivato ai due terzi necessari per approvare la nuova costituzione…
In accordo alla legge che convocava quel voto, era impossibile che qualcuno ottenesse i due terzi. In più, abbiamo ampliato la nostra presenza a Santa Cruz e a Tarija. C’è un’impressionante presenza del Mas in tutto il paese ed è la prima volta che la sinistra vince a Santa Cruz.

E il referendum per l’autonomia?
Insieme a quanto ho descritto c’è un forte spirito regionale autonomista, che come governo dobbiamo riconoscere e trattare come una delle fratture sociali che devono essere suturate dalla Costituente. Dobbiamo raccogliere questo messaggio, che chiede un maggior decentramento politico-amministrativo. La gente ci ha consegnato un doppio messaggio: vuole autonomie, ma gestite dal blocco del cambiamento e non da quello conservatore.

Nell’agenda del governo c’è l’introduzione, nella nuova costituzione, della rielezione del presidente
Non è spinta dal partito o dal governo, ma i movimenti sociali la vogliono. Vedremo come sarà trattata dall’Assemblea costituente.

Fino a dove è possibile cambiare lo stato, e non esserne invece cambiato?
Il potenziamento dei movimenti sociali è avanzato in modo inversamente proporzionale all’indebolimento dello stato. Però oggi i movimenti sociali accedono alla struttura dello stato con un nuovo rapporto di forze, come controllo delle istituzioni e come un nuovo sentimento comune nella difesa della nazione e nel riconoscimento degli indigeni, fatto proprio persino dalla destra. Però lo stato è anche istituzionalità e inerzia, esclusione e discriminazione ancora se li porta addosso. Lo stato come relazione sociale è più flessibile e facile da cambiare che lo stato come istituzione, come materiale ereditato che continua a riprodurre meccanismo di emarginazione. E’ qui la grande tensione in questo processo di occupazione dello stato da parte dei movimenti sociali. Come trasformare questa istituzione rigida in favore dei movimenti sociali e della società civile? Questa è la sfida della prossima assemblea costituente.

Quando si parla di un governo dei movimenti sociali l’immagine alla mente è quella di un governo assembleare, e non è quello che succede in Bolivia dove le decisioni si concentrano nel presidente, Evo Morales.
Parliamo di governo dei movimenti sociali perché il programma costruito e portato avanti da queste organizzazioni negli ultimi sei anni (e anche nelle lotte anticoloniali e antiliberali anteriori) è compreso nelle riforme che si stanno mettendo in atto. Secondo, la struttura del Movimiento al socialismo è una coalizione di movimenti sociali che definiscono la struttura generale di questo governo. E terzo, le grandi decisioni che sono state prese – la nazionalizzazione degli idrocarburi, l’Assemblea costituente, la rivoluzione agraria – sono il risultato di processi decisionali e di consultazione con i movimenti. Non c’è un assemblearismo permanente, ma una combinazione di assemblearismo e di concentrazione delle decisioni.

Tuttavia i movimenti sociali non sono omogeneamente presenti in tutto il paese.
Dove i movimenti sociali sono più deboli, ad esempio nell’Oriente boliviano, lo stato si presenta come ammortizzatore dei monopoli clientelari privato-imprenditoriali fatti di minacce e intimidazioni che limitano l’azione collettiva popolare. Come dire, lo stato libera le condizioni dell’esercizio dei diritti e il potenziale delle mobilitazioni.

Suona molto leninista…
Ovviamente, in fondo siamo giacobino-leninisti. (ride)

L’Assemblea costituente è passata dall’idea del potere costituente del popolo (diciamo Toni Negri) a quella di costituzionalizzare o blindare decisioni prese per decreto (diciamo Hugo Chavez). C’è un cambio nella maniera di pensare della Costituente?
Quando non eravamo al potere vedevamo la costituente come lo scenario della costruzione di un contropotere di fronte a uno stato chiuso alle domande sociali. Ma quando il movimento popolare è riuscito a rompere la blindatura dello stato, è colato attraverso i buchi e ha buttato giù i muri, una buona parte di quelle domande hanno cominciato a essere messe in atto dal nuovo governo. Ll’Assemblea (che si riunirà a Sucre il 6 agosto) sarà il grande scenario del rituale di integrazione e unione della società in un momento di vittoria. Se riesce il grande armistizio nazionale la costituente avrà adempiuto la sua missione, e con gli interessi. Ma l’assemblea sarà anche il luogo di materializzazione di nuovi rapporti di forza nel paese, quindi della costituzionalizzazione delle principali misure prese dal governo.

Evo Morales propone una grande alleanza di classe tra campesinos, indigeni, operai, classe media, imprenditori, patrioti e militari nazionalisti di fronte all'”imperialismo”. Lei, alla chiusura della campagna elettorale a Cochabamba, ha detto “industrializzazione o morte” e che l’esportazione di materie prime è la base del colonialismo. C’è un ritorno al vecchio nazionalismo, magari dal volto indigeno?
Ogni rivoluzione implica un tipo di alleanze, persino la lotta di classe ha successo se riesce a isolare l’avversario e unire potenziali alleati, questa è l’idea dell’egemonia. Non credo che un’alleanza di classi sia patrimonio del vecchio nazionalismo. La domanda è: chi costruisce l’egemonia? Oggi in Bolivia c’è una modifica nel nucleo su cui si articola la società. Ci sono rivendicazioni di patria, di stato, di sovranità, ma chi le lancia non è la classe media alfabetizzata della Rivoluzione Nazionale del 1952, ma un conglomerato di movimenti sociali di base indigena. E’ questo ha come risultato un nuovo tipo di nazionalismo indigeno, a me piace di più patriottismo indigeno plurinazionale, che pensa la nazione a partire dalle diversità di nazioni che vivono al suo interno. Questa idea della patria ha due dimensioni: come forza statale e come forza dei movimenti sociali è una patria bicefala, un neopatriottismo indigeno.

E il suo prodotto economico è il capitalismo andino che lei ha proposto o il vecchio capitalismo nazionale?
Il prodotto economico di tutto ciò è lo smantellamento progressivo della dipendenza economica coloniale che ci condannava a essere un paese esportatore di materie prime. Per questo la nazionalizzazione degli idrocarburi va collegata alla loro industrializzazione nel paese. La Bolivia continuerà a essere un paese capitalista ma con maggior potere negoziale davanti ai nodi del capitalismo mondiale. Internamente, si tratta di potenziare le strutture comunitarie, per questo parliamo di capitalismo andino-amazzonico. Predomina il capitalismo, ma riconoscendo e rafforzando altri modi di produzione a cui verranno travasati ricchezza, eccedenze, risorse tecniche. C’è una specie di neo-comunitarismo economico che va potenziandosi, parallelamente all’economia statale e a una relazione negoziale con gli investimenti stranieri e locali.