L’accusa da cui si devono difendere coloro che guardano con ribrezzo al terrorismo, ma non condividono la mera reazione militare ad azioni che sarebbero impensabili se non trovassero un brodo di coltura nel malessere profondo di miliardi di individui intrappolati nel sottosviluppo, è quella di antiamericanismo aprioristico. Questo articolo vuole suggerire due o tre pallottole intellettuali per poter argomentare con serenità che gli Stati uniti sono i maggiori responsabili del disastro economico dei paesi in via di sviluppo.
Secondo quanto ci spiegò qualche anno fa Riccardo Parboni (uno dei più valenti economisti che la sinistra abbia mai avuto, prematuramente scomparso, e che i lettori più anziani de il manifesto ben ricorderanno), nel periodo della guerra fredda, e sino agli anni ’70, i Pvs (paesi in via di sviluppo) trovarono uno spazio di autonomia, sia politica (il movimento dei non allineati) che economica (politiche di industrializzazione), fra i due contendenti – simpatizzando ovviamente per una delle due potenze, peraltro a quel tempo rispettosa della loro autonomia. In questo contesto gli Usa non poterono o vollero imporre la liberalizzazione dei mercati e della finanza in quei paesi.
La trappola del debito.
La necessità di aiuti finanziari era sopperita, seppur insufficientemente, attraverso i canali ufficiali. Si noti che un Pvs ha la necessità primaria di procacciarsi potere d’acquisto internazionale, o attraverso le esportazioni o i prestiti esteri, per finanziare le importazioni di beni avanzati o di materie prime di cui necessita. Con lo sviluppo del mercato dell’Eurodollaro, e poi con il riciclaggio dei surplus finanziari dei paesi produttori di petrolio negli anni ’70, la finanza privata internazionale non perse l’occasione di proporsi come finanziatrice dei Pvs. Scattò, per quei paesi che ci vollero cadere (e fra questi i paesi dell’est europeo), la trappola del debito estero (come Parboni ben intuì).
E’ con la crisi messicana del 1982 che la trappola si disvelò, e con essa il nuovo ruolo assegnato alle istituzioni di Bretton Woods, Imf e World Bank, di assicurare che i debiti venissero onorati. Questo doveva avvenire attraverso politiche restrittive tali da generare un surplus della bilancia commerciale. Gli anni ’80 sono stati definiti la “decade perduta”, in particolare per i paesi Latino americani. Solo le cosiddette Tigri asiatiche crebbero, anche in seguito a cospicui aiuti americani (un aspetto studiato da Joseph Halevi), ma anche su di loro si esercita alla fine la pressione Usa per aprirsi agli “aiuti” della finanza internazionale. Assorbito lo shock della prima crisi del debito, dal principio degli anni ’90 il flusso di crediti ai Pvs si rifece massiccio.
Questa volta l’intervento dell’Imf non si esplicò, tuttavia, quando la frittata era fatta, ma in anticipo, imponendo ai paesi invitati alla tavola dei flussi di capitale privato di adottare quell’insieme di misure che divennero note come “Washington Consensus”. In sintesi il Washington Consensus predicava (e predica) la ritirata dello Stato sia sul piano macroeconomico (tagli di spesa pubblica e tasse; smantellamento dei controlli sui movimenti di capitale) che micro (liberalizzazione dei mercati, privatizzazioni, smantellamento di ogni politica di sostituzione delle importazioni). Con un po’ di retorica, volta a compiacere le Ong, si dovevano salvare solo gli interventi volti a fornire l’istruzione e la sanità per le fasce più povere delle popolazioni. La liberalizzazione dei flussi di capitale, alla fine accettata anche dai paesi asiatici, fu fra le cause della crisi finanziaria del 1997 in quei paesi.
La salvaguardia degli interventi sull’istruzione, povertà ecc. trovò anche una sponda intellettuale nella teoria della crescita “endogena”, uno dei filoni intellettuali più scandalosamente banali che l’analisi economica ortodossa abbia mai prodotto. Due economisti, D.Kenny della World Bank e D.Williams dell’Università di Oxford (in World Development, 2001) hanno documentato come nessuna delle ipotesi che la teoria ortodossa ha recentemente ipotizzato come la causa della crescita risulti empiricamente confermata (tranne che allo scopo di produrre montagne di inutili lavori “scientifici”, e forse l’ennesimo sciocco premio Nobel del futuro). La teoria economica neoclassica è di nessuna guida alla crescita.
La debacle materiale Ma i nostri amici economisti stentano a credere che i loro precetti non funzionano! Un assai noto economista della World Bank, William Easterly (Journal of Economic Growth, june 2001) constata con costernazione che nel periodo 1960-79 il tasso di crescita mediano (quello per cui la metà dei Pvs sono da una parte, l’altra metà dall’altra) fu del 2,5%. All’opposto, nel periodo 1980-1999 è stato lo 0,0%! E tutto questo nonostante che le istituzioni internazionali avessero imposto a questi paesi le “giuste” politiche economiche proprio dal principio degli anni ’80! Testualmente: lo studio documenta “un puzzle significativo nella ricerca empirica sulla crescita: la stagnazione del tipico paese in via di sviluppo negli anni ’80 e ’90, nonostante le politiche economiche che.. avrebbero dovuto condurre all’accelerazione, non alla caduta, della crescita”.
In questo quadro sconfortante, paradossalmente, si salva il Cile, che in barba al liberismo, adotta controlli selettivi sui flussi di capitale in ingresso, e i paesi del sud-est asiatico, sino a quando non sono stati obbligati a cadere nella trappola della finanza internazionale.
Ma d’altronde, si deve essere parecchio ingenui per credere che le istituzioni di Washington predichino quello che predicano in omaggio alla teoria economica. Quali sono i veri scopi delle politiche imposte ai PVS (per cui si fa finta di credere a precetti che, palesemente, non fanno crescere i Pvs)?
Parboni ci propone due illuminanti spiegazioni. In primo luogo gli Usa non hanno bisogno della crescita del resto del mondo (come dimostra la solitaria crescita Usa sotto Clinton). Questo in seguito al potere del dollaro: il disavanzo della bilancia commerciale Usa (più precisamente delle partite correnti) che si determina quando essi crescono e gli altri no è finanziato emettendo passività denominate in dollari (il che equivale a finanziare il disavanzo con l’estero stampando dollari).
Ma gli Stati uniti non possono ignorare il resto del mondo, e le altre potenze minori ne possono avere necessità come mercato di sbocco dei propri prodotti. Ecco allora la grande funzione della finanza privata internazionale (e all’occorrenza di quella ufficiale, FMI e Banca Mondiale): concedere crediti ai PVS per agevolare l’assorbimento del surplus commerciale dei paesi industrializzati oltre a tenere sotto controllo i Pvs qualora vadano troppo oltre nel ruolo subordinato loro assegnato nella divisione internazionale del lavoro (come sottolineato da Augusto Graziani nel caso della crisi finanziaria del Sud-est asiatico del 1997). Il precedente storico è quello dell’impero britannico alla fine del XIX secolo (e rinvio agli studi di Marcello De Cecco in merito). In questo quadro, la difesa del ruolo della City come grande centro finanziario, che abbisogna del consenso Usa contro alle ambizioni di Francoforte, può forse spiegare la solerte partecipazione britannica alle attività belliche.
Gli interessi del Tesoro.
Ma infine, è poi vero che il Fmi e la Banca Mondiale ubbidiscono all’amministrazione Usa? Da The Economist all’ultimo usciere a Washington riderebbero in faccia a chi lo negasse! Robert Wade, professore di Political Economy alla London School of Economics, su New Left Review, genn.febbr.2001 (un articolo di Wade scettico sugli esiti del liberismo è stato recentemente ospitato anche da The Economist, che raramente ospita interventi esterni) ha raccontato le vicende che hanno condotto nel novembre del 1999 alla defenestrazione di Joseph Stiglitz, uno dei Nobel dell’economia dell’altro giorno, da Chief Economist della Banca Mondiale: il ministro del Tesoro americano, Lawrence Summers (un altro economista accademico) batté i pugni sul tavolo dopo aver visionato la stesura provvisoria del World Development Report, steso sotto la guida di Stiglitz, inorridito, in particolare laddove si attribuiva la causa della crisi asiatica del 1997 alla frettolosa apertura dei mercati finanziari in quei paesi e si plaudeva ai controlli sui movimenti di capitali introdotti nell’occasione dalla Malaysia. Mercati finanziari liberi come base dell’architettura economica mondiale, aveva dichiarato Summers qualche anno prima, costituiscono la più cruciale priorità economica internazionale degli Usa. Un obiettivo elementare di lotta per i movimenti democratici è dunque lo spostamento delle istituzioni finanziarie internazionali da Washington, la loro totale indipendenza dal Tesoro americano, il ritorno ai loro scopi originali. Non si tratta dunque di antiamericanismo preconcetto, ma se vada o meno lasciato ai Bin Laden il monopolio della lotta per un nuovo ordine economico internazionale.
* Università di Siena