Birmania: La colpa della sciagura birmana è anche nostra

Mentre la giunta militare che governa la ex-Birmania dà la caccia ai giornalisti per censurare le immagini della repressione, i leader dei paesi occidentali si danno da fare per nascondere le vere ragioni della rivolta. Intendiamoci, i nostri governanti sono ben più abili degli assassini che governano a Rangoon e sono espertissimi nell’impiego dei media. La tattica è quella di rovesciare sui cittadini una gran massa di notizie, facendo sfoggio di pubblico ludibrio e minacciosi appelli, per nascondere le informazioni più importanti. Dai fabbricanti del consenso sta uscendo fuori una storia confezionata sapientemente: un tocco di Gandhi (i monaci), un tocco d’esotismo feroce (i crudeli militari dagli occhi a mandorla che sparano fra le palme) e il cattivo del momento (la Cina che tace colpevolmente). Oggi, ci viene detto, siamo tutti birmani e questo è il bello della globalizzazione: nessuno può pensare di negare la democrazia a un popolo senza che gli altri lo vengano a sapere e spingano i propri governi a esercitare pressioni crescenti che possono arrivare fino a un cambio di regime. Ora, dio non voglia che a Washington venga in mente di bombardare il cortile di casa di Pechino per “esportare la democrazia” – senza nulla togliere all’anelito dei birmani a uscire dalla dittatura e senza negare il sostegno che i cinesi garantiscono a regimi brutali e corrotti – questa storia serve a nascondere le cose più importanti, quelle che riguardano noi tutti.

Primo: in Birmania (o Myanmar, se si vogliono rispettare le denominazioni imposte dalla giunta) ci sono tutti, non solo i cinesi. Il paese ricco di risorse naturali è stato mantenuto in stretto isolamento fino a quando, qualche anno fa, la giunta ha deciso di aprire le porte ai capitali stranieri interessati alle foreste piene di legname pregiato, alle risorse del sottosuolo e a infrastrutture turistiche sul modello thailandese. La giunta ha proceduto a una vera e propria operazione di maquillage – di cui ha moderatamente usufruito anche Anug San Suu Kyi quando la morsa si è un po’ allentata – che ha finito però col trascinare nel fango le corporation occidentali. Si è scoperto infatti che per costruire gli oleodotti degli americani e dei francesi, o le dighe tailandesi o i villaggi turistici delle multinazionali spagnole, veniva utilizzato il lavoro forzato dei contadini rapiti dai loro villaggi appositamente a questo scopo. L’allarme lanciato dalle organizzazioni per i diritti umani, e l’invito a non partecipare al saccheggio di un paese brutalizzato, non hanno trovato ascolto. Dopo lo tsunami del 2004, con centinaia di chilometri di magnifiche coste “ripulite” dalla presenza dei villaggi dei pescatori, con una manodopera ridotta alla fame e senza leggi di salvaguardia ambientale a rompere le scatole, nessuna multinazionale si è tirata indietro.

Secondo: la protesta non è scoppiata intorno a una generica richiesta di democrazia – come sarebbe stato possibile? Dopo quarant’anni di regime sanguinario i birmani non sanno nemmeno come è fatta… – ma contro delle riforme economiche feroci imposte dalla giunta ma formulate altrove. Le riforme – basate sulla solita terapia shock di tagli ai sussidi e privatizzazione dei servizi – sono state “consigliate” dagli organismi di credito internazionale in cambio dei prestiti necessari a costruire le infrastrutture per il nuovo paradiso dei capitalisti. Una volta eliminati i sussidi, il prezzo della benzina è salito del trecento per cento condannando alla morte per inedia una popolazione già in miseria. Insomma, la gente non è scesa in piazza per difendere il proprio diritto di scegliere un partito ma per contrastare delle scelte economiche che, in una situazione già estrema come quella di un paese povero e sotto dittatura, mettono in pericolo la propria stessa sopravvivenza. Sotto questa luce la storia appare molto meno esotica, e ben più comprensibile.
Infine la questione dei monaci, che solleva innumerevoli e dottissime dissertazioni e domande: perché una religione fondamentalmente teocratica si batte per la democrazia? Perché i pacifici e ascetici buddisti si occupano di cose così materiali come il prezzo della benzina? Per capirlo basta guardarsi un tantino indietro, sporgendo la testa al di là degli steccati culturali e dei conflitti fra civiltà che, malgrado tutto, ci hanno messo il paraocchi. Basta guardare all’Iran, paese prevalentemente laico e perfettamente in grado di eleggere un brillante primo ministro, Mohammad Mossadeq, buttato fuori da un golpe della Cia. La brutale repressione dello Scià riuscì a sterminare un’intera generazione di attivisti lasciando libertà di riunione e associazione solo nelle moschee, non potendo dichiarare guerra anche alla religione. La stessa cosa è successa praticamente in ogni paese islamico aprendo le porte all’ascesa di un fondamentalismo di cui continuiamo a non cogliere la connotazione politica e sociale. Una simile, obbligata politicizzazione della religione ha dato vita a Solidarnosc in Polonia e alla teologia della liberazione in America Latina visto che, com’è noto, il resto degli oppositori – sindacalisti, contadini, indigeni, studenti… – erano stati fatti sparire nel nulla. Dove la repressione diventa feroce non restano che i luoghi di culto, e la rivendicazione sociale impara a parlare il linguaggio simbolico della fede come accadeva nel medioevo. Ma la storia insegna che, quel minimo di rispetto dovuto alla tradizione – o alla superstizione – viene in fretta dimenticato quando monaci, preti o imam, cominciano a fare sul serio.