Bilin, resistere al Muro-apartheid

Si chiude oggi con l’abituale manifestazione di protesta del venerdì contro il «muro dell’apartheid» costruito da Israele in Cisgiordania, alla quale parteciperanno oltre a centinaia di palestinesi anche molte decine di attivisti israeliani e internazionali, la seconda conferenza annuale di Bilin sulla resistenza popolare. Un appuntamento che ha soddisfatto le attese della vigilia e, soprattutto, ha confermato il risveglio della società civile palestinese messa ai margini dalle formazioni militanti armate nella lotta contro l’occupazione israeliana dei Territori che il prossimo giugno compie quaranta anni. Non solo ma ha posto in evidenza quelle organizzazioni della sinistra israeliana più antagonista, come «Anarchici contro il muro», emerse in questi ultimi due-tre anni in alternativa ai movimenti pacifisti israeliani più classici, come Peace Now, che appaiono vincolati alle decisioni dei laburisti o del Meretz (sinistra sionista) e in definitiva al «consenso nazionale».
Mercoledì e ieri giovani attivisti giunti da una dozzina di paesi, in gran parte europei, e veterani come il pacifista israeliano Uri Avnery, hanno affollato l’ampio tendone allestito dagli abitanti di Bilin per discutere delle forme della resistenza popolare, di nuovi modi per contrastare l’occupazione e le conseguenze della costruzione del muro israeliano, che procede senza intoppi nonostante la condanna della Corte di giustizia dell’Aja.
Non è stata però una conferenza sul pacifismo. Piuttosto quella di Bilin è stata un’ampia discussione su come rilanciare il ruolo della società civile palestinese nella costruzione di uno Stato indipendente, sovrano e democratico, e su come stabilire forme di collaborazione tra soggetti diversi – palestinesi, israeliani e internazionali – nella battaglia per la fine dell’occupazione, in Palestina e in altre parte del mondo, con un sguardo attento ai temi della globalizzazione. «Come è sancito dalle convenzioni internazionali – ha detto il vice presidente del parlamento europeo, Luisa Morgantini – i palestinesi hanno il diritto di liberarsi dall’oppressione anche con le armi, senza però colpire civili innocenti. Tuttavia le manifestazioni di massa e il coinvolgimento popolare in una resistenza non armata, ma non per questo meno incisiva, hanno sempre prodotto risultati significativi per le aspirazioni palestinesi. Come avvenuto nella prima Intifada dell’87-’93), che assicurò alla causa palestinese un ampio consenso internazionale». La conferenza ieri ha lasciato spazio proprio alla elaborazione di forme di resistenza popolare in collaborazione tra palestinesi, israeliani e internazionali.
Il recupero di un ruolo di primo piano per i comitati popolari, i movimenti studenteschi, le associazioni, i centri per i diritti umani e culturali, è sempre più sentito tra i palestinesi, anche negli strati più poveri, di fronte allo strapotere dei partiti politici impegnati in lotte di potere – Fatah ma anche Hamas dopo la vittoria elettorale – e al fiorire di formazioni armate che agiscono a metà strada tra la criminalità e la politica.
A Bilin si è parlato molto anche del muro. Il villaggio è divenuto il simbolo della lotta palestinese contro la barriera israeliana. L’ex ambasciatore palestinese all’Onu ed ex ministro degli esteri Nasser Qidwa – che tre anni fa presentò il caso di fronte ai giudici della Corte di giustizia dell’Aja – ha descritto i danni devastanti che il muro sta causando a decine di migliaia di persone in Cisgiordania e all’economia palestinese e ha criticato il disinteresse internazionale.