Numerose nubi si stanno addensando intorno alle elezioni che domenica prossima decideranno il nuovo presidente dell’ex-repubblica sovietica che in assoluto ha conservato i legami più stretti con Mosca. Quale garante di una transizione all’economia di mercato che ha risparmiato alla popolazione i disastri sociali conosciuti dagli altri eredi dell’Urss, l’attuale uomo forte al potere, Aleksandr Lukashenko, non si attende grosse sorprese dal risultato delle urne. A Lukashenko si oppone Vladimir Goncharik, candidato unico – ex leader sindacale ed ex comunista anche lui – di un’opposizione eterogenea e lautamente finanziata dall’Occidente. Da mesi fra Lukashenko e l’opposizione infuria una guerra mediatica che si è acuita in questi giorni di vigilia elettorale. Giovedì, il vice-premier e capo degli esteri, Mikhail Khvostov ha accusato la missione elettorale dell’Osce di condurre nel paese un'”attività estremamente distruttiva, portante pregiudizio alla fiducia nei confronti dell’organizzazione”. Khvostov ha poi richiesto a Vienna la sostituzione del capo missione. La sfida mediatica in corso riguarda anche l’Italia. E stato infatti annunciato l’inizio del processo ad Antonio Angelo Piu, il cinquantenne italiano scoperto lo scorso aprile mentre, secondo le affermazioni dei servizi segreti bielorussi, trafugava segreti militari attinenti alla difesa del paese. Il portavoce dei servizi di sicurezza (tuttora denominati “Kgb), Fiodor Kotov, ha dichiarato l’altro ieri che Piu “lavorava per i servizi segreti italiani” utilizzando la ditta di import-export di cui è titolare (l'”Anirsavida”) “quale copertura per la sua attività di spionaggio”.
Che ci sia del marcio nel governo di Lukashenko è fuori discussione – vi sono numerosi casi documentati di “sparizioni” eccellenti riguardanti giornalisti ed ex-membri del governo. Ma è altrettanto vero che simili situazioni sono moneta corrente in quasi tutti gli Stati ex-sovietici, spesso senza scandalo in Occidente.
La verità è che al di là del limitato peso demografico e geopolitico, il destino della Bielorussia – ostinatamente al fianco della Russia, con la quale ha de facto unificato le proprie Forze Armate qualche mese fa – riveste un enorme valore simbolico di resistenza all’egemonia americana in Europa e alla vicenda dell’allargamento della Nato a est (solo ieri Putin ha nuovamente detto un No secco). Già nei giorni della caduta di Milosevic, il Washington Post invitava tempestivamente l'”Occidente” a volgere lo sguardo verso la Bielorussia per “sostenere i democratici”. In questi giorni gli elementi per una “variante jugoslava” in Bielorussia appaiono più che reali. Come riportava il Times dello scorso lunedì, gli Stati uniti avrebbero deciso di adottare contro Lukashenko la politica utilizzata con i Contras: per la Bielorussia, come già nel Nicaragua sandinista degli anni 80, l’America ha gli “stessi obbiettivi ed, in una certa misura, la stessa metodologia” – finanziare e armare squadre anti-governative per provocare un cambiamento di regime che costò 30.000 vite. La candida ammissione è venuta dall’ambasciatore Usa a Minsk in persona, Michael Kozak, uno specialista in materia poiché già responsabile dell’America latina nelle amministrazioni di Reagan e Bush padre.
Il gioco sembra essere quello di far perdere la pazienza agli uomini di Lukashenko. Da parte americana, una crisi fra l’Europa ed i fedelissimi di Mosca sarebbe più che opportuna nel momento in cui l’intesa fra Russia e paesi dell’Ue non smette di rafforzarsi, sia sul piano economico che su quello politico. L’occasione potrebbe già presentarsi per la notte degli scrutini di domenica? L’opposizione ha indetto manifestazioni, mentre Lukashenko ha ribadito che reprimerà qualsiasi azione non autorizzata, quale appunto è la marcia promossa con tanto di appello alla popolazione.