Bettazzi: «E la Chiesa tornò a parlare alle persone»

Sono oramai trascorsi quarant’anni da quel 8 dicembre 1965 quando nella basilica di san Pietro, papa Paolo VI celebrava la conclusione del Concilio Vaticano II. Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, di quell’evento è stato testimone diretto. Allora, da vescovo ausiliare della diocesi di Bologna e stretto collaboratore del cardinale Giacomo Lercaro, visse dal di dentro quella stagione di cambiamento che spinse la Chiesa, vescovi compresi, a guardare in modo nuovo, più aperto, al mondo e alla società contemporanea. Un percorso maturato non senza tensioni e contrapposizioni. Lo ricorda lui stesso. Di quella lezione molto deve essere ancora assimilato. Benedetto XVI che oggi in san Pietro ricorderà l’evento e che proprio al Concilio Vaticano II dedicherà la sua prima encilica, ne seguirà la via: ne è convinto mons. Bettazzi che però, a proposito della polemica sul relativismo osserva «come sia proprio il cammino di ricerca della verità a comportare situazioni di relatività». Ricorda come anche il Concilio abbia dimostrato che «le verità di sempre potevano essere state espresse in modo “relativo”, modificato e arricchito successivamente». Quello veramente pericoloso è il relativismo degli «atei devoti». Papa Ratzinger saprà guardarsene?
L’8 dicembre 1965 si chiudeva il Concilio Vaticano II. Perché dopo quarant’anni se ne parla ancora come di un evento importante?
«Il Concilio Vaticano II fu un evento importante per la Chiesa Cattolica. La fece passare da un atteggiamento di chiusura, di interesse e di difesa di sé medesima, di proselitismo e di conquista, ad una più approfondita coscienza di sé, della sua apertura a Dio e al mondo. Le diede nuovo entusiasmo e nuove speranze. Ma fu un momento importante per tutta l’umanità, che guardava a quell’evento della Chiesa cattolica come a una speranza per tutti; quasi che, se cambiava la Chiesa cattolica, uno dei blocchi più solidi del mondo, potesse rinnovarsi tutto. E c’era l’attesa di rinnovamento, come mostrarono le spinte del 1968-69».
La Chiesa cattolica che apre le sue finestre al mondo. Cosa alimentò questa scelta?
«Credo che una delle cause sia stata la decisione di Papa Giovanni XXIII non di ripetere un Concilio “dogmatico”, che precisasse “dogmi”, cioè verità da credere, aggiungendo – come avevano fatto tutti i Concili precedenti – che chi non le avesse credute sarebbe stato scomunicato, bensì di fare un Concilio “pastorale”, che valutasse in qual modo si potessero presentare le verità di sempre alla gente contemporanea, un Concilio cioè che partisse dalle persone, dalle loro sensibilità e dalle loro attese. Di qui la nuova attenzione alla Parola di Dio e a liturgie partecipate, di qui anche la rivalutazione del laicato e l’apertura al dialogo con tutti i credenti in Cristo, ma anche con tutti i credenti in Dio, a qualunque religione appartenessero, giungendo fino al dialogo con quanti, senza avere un’esplicita fede religiosa, credono nel valore dell’umanità e s’impegnano per la pace, la giustizia, la solidarietà».
Lei che ha partecipato al Concilio può dirci se fu percorso da tensioni tra chi difendeva la continuità della tradizione e chi voleva innovare la vita della Chiesa?
«Le tensioni ci furono, evidenti, anche se nessuno voleva rompere con la “tradizione”; ma v’era chi intendeva la tradizione come fissazione delle formule e dei comportamenti (ed erano alcune centinaia di vescovi, capeggiati da mons. Lefevbre, allora ancora in comunione col Papa e con l’episcopato), e la maggioranza che invece l’intendeva come il rielaborare le verità di sempre ma in modo da metterle in sintonia con la mentalità contemporanea, più critica, più personalistica, più dialogante, più corresponsabile».
I padri conciliari hanno riconosciuto il valore della libertà religiosa e questo dopo che Pio IX nel Sillabo l’aveva condannata. Si è parlato di pace, di giustizia, dell’uso equo delle ricchezze naturali, argomenti su cui raramente la Chiesa aveva parlato…
«Anche questo mette in evidenza l’attenzione alle persone. Per quanto riguarda la “libertà religiosa” Pio IX aveva condannato il principio che tutte le religioni fossero uguali, quasi che risultasse facoltativo o indifferente aderire all’una o all’altra. Il Concilio Vaticano II invece precisa che a Dio si deve andare nella pienezza della propria umanità, quindi liberamente, che quindi questa libertà personale va rispettata, e che non si possono obbligare persone o popoli a seguire forzatamente una determinata religione. Ce ne rendiamo conto, dobbiamo rammaricarci se l’abbiamo fatto nel passato, e dobbiamo esigere che questo sempre più avvenga al giorno d’oggi. Direi che questa è la conquista della “laicità” delle istituzioni pubbliche. Quanto alla pace, il Concilio fu fortemente influenzato dall’Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII, uscita tra la prima e la seconda sessione del Concilio ed ispiratrice della Costituzione Gaudium et spes su la Chiesa nel mondo contemporaneo. Ci si rese conto che la Chiesa non deve tanto pensare alla “sua” pace (un tempo ottenuta anche attraverso guerre “sante”), bensì a “la” pace, la pace dell’intera umanità, e deve allora farsi promotrice di quelle situazioni di giustizia, di rivendicazione dei diritti e delle esigenze fondamentali dei più poveri e dei più emarginati del mondo, di quella solidarietà da cui solo possono sorgere i cammini della pace».
Papa Benedetto XVI, allora giovane teologo, ha partecipato ai lavori del Concilio. Da Papa ha ribadito il suo impegno a seguirne gli insegnamenti. Ma non le sembra che la sua battaglia contro il relativismo porti ad una contrapposizione col mondo contemporaneo e si apra alla strumentalizzazione dei cosiddetti «atei devoti»?
«Ricordo Ratzinger al Concilio come teologo del Card. Frings, Arcivescovo di Colonia, per il quale aveva preparato un discorso molto aperto sulla “collegialità”, cioè sulla corresponsabilità dei vescovi intorno al Papa. E Concilio, collegialità, ecumenismo, dialogo col mondo ebraico sono stati temi del primo discorso di Papa Benedetto XVI, forse frutto di intese entro il Conclave. L’attenzione al “relativismo” probabilmente è una conseguenza della lunga missione precedente alla Congregazione per la dottrina della fede, dove era chiamato a difendere l’assolutezza dei principi. Il cammino della ricerca della verità comporta situazioni di relatività, di ipotesi, di sospensioni. In fondo anche il Concilio ha dimostrato che le verità di sempre potevano essere state espresse in modo “relativo”, modificato e arricchito successivamente. Papa Benedetto è un uomo intelligente e di molta fede, e si renderà conto che il relativismo più pericoloso è proprio quello degli “atei devoti” che, al di là delle convinzioni personali che possono avere, stanno ora cavalcando la solidità della fede pontificia per farsene un trampolino per le loro posizioni politiche».
Quali novità si aspetta, ora, da Benedetto XVI?
«Ritengo che la priorità data dal Papa ai problemi interni della Chiesa, al rinnovamento delle sue strutture e delle sue collaborazioni potrà dare nuovo respiro al centro della Chiesa cattolica, quindi più aperta corresponsabilità a tutto il corpo episcopale, ma quindi anche a tutto il corpo ecclesiale. L’allargamento di responsabilità non può non riconoscere il ruolo indispensabile che ha nella Chiesa, a tutti i livelli, anche il laicato, proprio a cominciare dall’ambito che gli è proprio, che è quello delle scelte politiche».
Sono trascorsi quarant’anni dalla chiusura del Concilio, è stato un tempo di speranza e di libertà non solo per la Chiesa. Possiamo sperare che quel vento torni a soffiare?
«Lo spero sinceramente. Anche questa rievocazione corale del Concilio (a cominciare da quella dei vescovi riuniti in novembre ad Assisi), ha sollecitato nuove letture, nuove riflessioni, verifiche anche dialettiche, ma pur sempre interesse. Credo che, al di là dei singoli punti di esame e di impegno, il criterio “pastorale” con cui venne indetto e vissuto il Concilio, debba sollecitarci a guardare all’umanità, ai suoi problemi di oggi e di domani, alle sue povertà e alle sue attese, perché le verità di sempre – l’amore di Dio Padre, la grazia salvatrice di Gesù Cristo, lo spirito di fraternità diffuso dallo Spirito – possano orientare e sostenere il mondo cattolico a rendersi sempre più lievito di tutta l’umanità per quella pienezza di umanità e di pace che ha portato Dio a farsi uomo e che rievocheremo nel Natale ormai vicino».