Non sarà Fausto Bertinotti a impedire che la maggioranza si allarghi. Anzi: se qualche moderato vuole unirsi, sia il benvenuto. Purché tutto avvenga alla luce del sole, senza astuzie di basso profilo. Il governo non rischia la crisi, ma la politica deve innalzarsi di tono poiché, spiega il presidente della Camera, «si stanno realizzando buoni obiettivi con cattivi spettacoli».
Si riferisce alla battaglia sull’indulto?
«Quando ho saputo che i detenuti nelle carceri hanno salutato il voto della Camera con un applauso io mi sono emozionato. Abbiamo fatto qualcosa per gli ultimi di questa società. Contemporaneamente, ero reduce da sedute della Camera in cui risultavano evidenti strumentalismo, mancanza di compostezza, conflitti portati per interposto problema…».
Che cosa l’ha colpita?
«La differenza tra il clima di oggi e quello che si respirava quando Giovanni Paolo II chiese un atto di clemenza. Leggo l’editoriale di Michele Ainis sulla Stampa: “Cosa impediva alla maggioranza di governo di avanzare fin da subito una proposta più limpida e coerente, girando sul centrodestra la responsabilità di non votarlo?”».
Risponda lei, presidente.
«Se la proposta fosse stata avanzata dal centrosinistra, l’indulto non si sarebbe fatto. Avremmo avuto facile gioco nel mostrare la responsabilità dell’opposizione, ma la popolazione carceraria ne avrebbe pagato le conseguenze. Io invece penso che la politica debba tornare importante in quanto assume come stella polare la soluzione dei problemi. Quindi si è andati in Parlamento a cercare, in maniera trasparente, l’intesa. Quale? Quella possibile per realizzare l’indulto. Il minimo comune denominatore».
Non rischia di essere una politica senza principi?
«Esattamente il contrario. Questa è una politica di alti principi. In quanto vuole affrontare una condizione carceraria inumana, inaccettabile, incompatibile con uno Stato di diritto».
E allora perché passa il messaggio di Di Pietro sui corrotti che avranno lo sconto di pena?
«Perché sull’indulto, come su altri aspetti, le forze riformatrici non hanno ancora individuato i livelli del compromesso dinamico da perseguire nella politica del governo. Un compromesso finora più annunciato che costruito, senza dispiegare nella società civile una presenza capace di sostenerlo, di farlo comprendere con una forza perfino pedagogica».
Lei come se lo spiega?
«Le forze riformatrici sono state più impegnate a realizzare la discontinuità col governo Berlusconi che a discutere su come concretamente realizzare il programma. E’ mancato un coinvolgimento partecipato, il testimone è passato direttamente dai movimenti al governo».
Ne critica l’azione?
«Ripeto: gli atti sono buoni. Prendiamo le scelte internazionali. Vedo un cambiamento della collocazione geo-politica dell’Italia, un riposizionamento strategico. Siamo passati da una sostanziale subalternità agli Usa a un rinnovato protagonismo in chiave europeista, rivolta al Mediterraneo, dentro una politica di pace».
Sennonché…
«Invece di farne un elemento propulsivo, si è aperta una contesa a sinistra sulla missione in Afghanistan».
Cosa è mancato?
«La coscienza del respiro strategico di quanto si sta facendo. Il cambiamento va proposto, annunciato, spiegato. Invece l’azione di governo si è prodotta quasi nel vuoto. Alle cose buone si è arrivati per compromesso interno, senza un adeguato disegno riformatore. Come sinistra (ma questo vale anche per le forze di centro) bisogna scegliere tra due diversi approcci. Uno è quello di considerare il rapporto con il governo come un armistizio dettato dallo stato di necessità, perché altrimenti torna Berlusconi. E allora si mantiene un’azione rivendicativa o di affermazione identitaria».
L’altra strada?
«Investire in un’ambizione più grande per l’Italia e per l’Europa. E rendere evidente il compromesso dinamico che si intende realizzare».
Sul Libano il compromesso fin dove si può spingere?
«Ho notato una straordinaria convergenza tra la nostra posizione e quella di Chirac. Se e quando una forza di interposizione dovesse intervenire, ha detto il presidente francese, dovrà intervenire a valle dell’attivazione del negoziato perché non è nelle armi la soluzione di quelle contese; nessuno pensi, sottolinea Chirac, che la Nato possa essere lo strumento efficace… Vede? Le nostre posizioni non corrispondono a quelle di un’Italia provinciale. Se poi ci si fa prendere dall’affanno della risposta immediata su ciò che non è all’ordine del giorno, cioè su natura e caratteristiche della forza d’interposizione, si prende lucciole per lanterne. Aprendo una discussione fuorviante».
Allargare la maggioranza sarebbe la risposta giusta alle difficoltà?
«In Europa esistono due modelli. Uno è quello della “grossa coalizione”, l’altro quello dell’alternanza. Chi pensa che occorra una forte discontinuità, e che i primi atti del governo muovano giustamente in questa direzione, deve scegliere lo schema dell’alternanza. Chi invece considera quest’ipotesi impossibile oppure troppo rischiosa, e perciò desidera la grossa coalizione, deve dire anzitutto per quale collocazione internazionale, per quale assetto economico e con quali forze sociali di riferimento la vuole realizzare».
Parlarne è scandaloso?
«No. Una discussione franca non è incompatibile con la vita del governo. Sotto traccia è già in corso. Vorrei che fosse portata alla luce del sole. Evitando le ovvietà».
Ovvietà di che tipo?
«E’ evidente, per esempio, che la via dell’alternanza è del tutto compatibile con una possibilità di allargare la maggioranza».
Allargarla a chi?
«A forze che fin qui non sono state dentro questa coalizione, ma che ne hanno compreso meglio la natura e scelgono di unirsi a noi. Chi viene, viene».
Da Bertinotti, quindi, non arriverebbe un no…
«La maggioranza deve essere autosufficiente perché il suo programma corrisponde a una necessità storica per il Paese. Possiamo perdere, non abdicare. Se in questo sforzo altri sono disponibili, bisogna considerarli con interesse. Ma questo allargamento può avvenire in due modi. Il primo, attraverso astute manovre parlamentari, che sarebbero di nocumento alla capacità attrattiva del processo di riforme. Anche per questo le forze della sinistra debbono scegliere con grande nettezza la via del compromesso: per impedire l’esito disastroso della grande coalizione».
L’altra strada?
«Nel paese prende abbrivio una reale forza di attrazione per una politica riformatrice, e parti di una realtà politica anche moderata si vanno convincendo che questa calamita è ciò di cui ha bisogno l’Italia. Perché mai dovrei essere contrario?».
Un esempio concreto.
«Le politiche neo-liberistiche hanno prodotto una vera devastazione, espressa nel dramma della precarietà. A fronte di ciò, vedo forze imprenditoriali che cominciano ad affrontare il problema sotto un punto di vista diverso dal passato. E se dice “abbiamo sbagliato” un grande imprenditore come Marchionne, vorrei essere il primo a indicare una possibilità di convergenza. Lo stesso dovrebbe poter avvenire sul terreno politico. Certo, ci vorrebbe che qui spuntasse qualche Marchionne…».
Preclusioni?
«Il limite è determinato dalla politica. Parliamo di rendite: esiste tra le forze moderate qualcuno in grado di mettere la propria faccia in un processo che affronti la redistribuzione della ricchezza? E di metterla senza dire che dopo le rendite toccherà alle pensioni? Chi c’è, batta un colpo. L’importante è non ragionare con la paura che il governo stia per andare in crisi».
Un rischio esistente?
«Azzardo la previsione che non ci sia. Anche perché non vedo emergere un disegno alternativo, e forze organizzate per realizzarlo. Credo invece che il medio periodo sarà guadagnato da chi più rapidamente riuscirà a individuare una strategia convincente e una cultura politica in grado di accompagnarla. Sta tornando la necessità della grande politica».
Il governo che fa?
«Alcune sue azioni la annunciano. Ne indicano la possibilità. Ma per poter costruire una grande politica serve un nuovo impegno. Uno scatto».
L’alternativa qual è?
«La disgregazione. Di cui si vedono già troppe tracce nella società italiana. Dove perfino lo sport più popolare, il calcio, è solcato dagli elementi di crisi, dai processi corruttivi, dalle rendite di posizione che denunciamo altrove. Fuori dalla grande riforma, nessuno si illuda, non c’è più nemmeno la compensazione gratificante dei circenses».