«Se qualcuno vuole manifestare a Napoli per mettere in discussione la nostra appartenenza alla Nato, noi non ci saremo»: questo ha dichiarato ieri il candidato segretario dei Ds, Piero Fassino, nella sua intervista al Corriere della Sera. E da qui cominciamo, con il segretario nazionale di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, a ragionare sul rapporto tra politica e movimento di contestazione globale.
D. – Cosa pensi di questa sortita di Fassino? Lui dice: «Genova ha insegnato qualcosa anche a noi»: significa che la revoca dell’adesione alla manifestazione del movimento il 21 luglio assurge a rottura strategica?
R. – La scelta che Fassino illustra mi pare sia davvero molto sintomatica di un atteggiamento che non riesce a modificarsi, come se fosse reso totalmente impermeabile ad ogni sollecitazione di movimento, di società o critico. Colpisce questo e insieme il fatto che c’è una sorta di eclissi del partito: so bene che Fassino è il numero 2 dell’Ulivo e il candidato alla segreteria dei Ds, ma siccome veniamo da una vicenda come quella enorme e drammatica di Genova e ad essa Fassino fa riferimento acriticamente, risulta egualmente significativo che una delle scelte successive, in questo caso Napoli, venga annunciata senza alcun dibattito interno. Parlo, ovviamente, del problema politico che in ciò si manifesta: a Genova i Ds hanno avuto un comportamento drammaticamente ondivago e rinunciatario, tanto da evidenziare uno stato di crisi. Come di chi risulta totalmente spiazzato da un evento.
D. – In che senso? Non è forse stata una scelta molto determinata, almeno per alcuni come Violante che l’ha proprio rivendicata?
R. – Siccome si discute in quel partito delle diverse opzioni per una sinistra moderata – partito socialdemocratico, forza liberaldemocratica – faccio notare che da qualunque punto di vista a Genova si sarebbe potuto immaginare un comportamento opposto a quello adottato dai Ds ufficialmente. Ad esempio un atteggiamento che, scegliendo almeno in modo moroteo una strategia dell’attenzione, avesse detto: “questo movimento ci interessa ma non vi partecipiamo perché non ne condividiamo la piattaforma, la critica alla globalizzazione neoliberale come l’orizzonte di un altro mondo”. Salvo poi, di fronte al fatto che per la prima volta dopo 24 anni un ragazzo veniva ucciso dai colpi sparati da un’arma dei carabinieri, decidere a quel punto di manifestare in nome d’un principio, della difesa dell’agibilità democratica delle manifestazioni di massa e contro un atto di violenza.
D. – E come mai non è andata così?
R. – Appunto: perché un atteggiamento così ragionevole per una forza riformista non è stato invece assunto? Ci si aspetterebbe l’apertura di un dibattito: che invece non c’è. A quella manifestazione partecipano, diversamente dalla linea ufficiale, non solo esponenti ma aree organizzate dei Ds, la loro sinistra interna che esplicitamente lo dichiara. Da una differenza così grande ci si aspetterebbe una drammatica discussione interna, che arrivi fino alla natura del partito: tanto più che a meno di non ricadere in un nuovo errore analitico, si capisce che questo movimento è destinato a durare e ad allargarsi, anche ad altri temi e settori. Quindi, un dibattito sul rapporto tra la definizione della natura di un partito riformista e la nascita di un movimento che porta su di sè il segno dei tempi e connota di sé il ciclo politico e sociale che abbiamo davanti, è ciò che uno dovrebbe aspettarsi da una sinistra moderata. Invece niente di tutto questo.
D. – C’è Fassino che dice: imparare la lezione significa non andare a Napoli…
R. – Ecco: al posto d’una discussione strategica, la proclamazione tramite un’intervista di che cosa? Ancora una volta di un’assenza. I Ds vivono di assenza. Non ci saranno neppure a Napoli: non è una novità, viene da chiedersi però doive pensano di potere stare. Intendiamoci, io capisco che i Ds non manifestino contro la Nato: onestamente non glielo si può chiedere, avendo essi costruito uno dei loro elementi caraterizzanti proprio sull’adesione alla Nato e in ciò operando una rottura con l’intera storia del movimento operaio italiano. Persino i socialisti nel governo di centrosinistra degli anni ’60 distinguevano tra l’adesione governativa alla Nato e la posizione critica del partito, mantenuta. Non sembrano però tempi di queste sottigliezze, per i Ds: che non solo si sono impegnati per la Nato, ma in una guerra costituente come quella sui Balcani, insomma una drammatica scelta di definizione. Se non che, bisognerebbe prendere atto che questa cosa è avvenuta e chiedersi se non sia una delle ragioni della loro perdita di consenso e della crisi d’identità politica. La coazione a ripetere è davvero l’unica possibilità? Ora, la Nato non è un dejà vu, non cioè la semplice riproposizione di quel che la Nato fu nel dopoguerra, nel mondo diviso in due blocchi contrapposti la cui attuale inesistenza dovrebbe determinare la revoca delle ragioni dell’Alleanza: bensì invece uno degli assi di un nuovo ordinamento imperiale. Un ordinamento che propone un governo del mondo per via non democratica, costruito per funzioni tecniche.
D. – Oltre a questo ragionamento, non c’è anche l’agenda concreta che è stata del G8 e sarà del vertice Nato: l’affermazione del progetto Usa di scudo spaziale?
R. – Per questo dico ai Ds: non solo non date conto d’un passaggio storico che riguarda l’ordinamento del governo del mondo, ma addirittura vi sottraete alla possibilità di essere parte di un movimento articolato a forte connotazione europeista, che critichi la scelta dello scudo spaziale e su vari piani, quello ecologista, quello pacifista, quello della gerarchia degli investimenti. Non è dunque vero nemmeno che questa scelta di non partecipazione era del tutto scontata in forza della scelta di adesione alla Nato: insieme, la perdita di consenso, la ridislocazione della Nato e la minaccia dello scudo spazile avrebbero potuto e dovuto indurre ad una revisione d’atteggiamento. Invece no. Addirittura, esso prende la forma simbolica e pratica di separazione dai movimenti. Questo non consente ai Ds neppure di far propria quella domanda civile e democratica di cui per esempio si è fatto intermprete il sindaco di Napoli: non tenere in quella città la riunione.
D. – Tutto ciò, in un giorno segnato dall’ennesima prova di un’incrinatura delle relazioni europee del governo italiano: la Germania di Schroeder che porta a Bruxelles un aspetto della repressione di Genova. L’opposizione moderata a Berlusconi è già superata dall’appello “bipartisan”?
R. – Non c’è dubbio che c’è anche un risvolto provinciale, un non saper guardare al di là del proprio naso. Rispetto proprio al rapporto tra movimento e apparati di repressione, tutta l’Europa è ben altrimenti avvertita. Con un atteggiamento laico che non si infila nel vicolo cieco delle nostra discussioni sul “clima che genera violenza”, cortina ideologica dietro cui può prendere corpo solo il fantasma, oggi appunto chiamato “bipartisan”, di forme di concertazione tra governo e opposizione. Che poi, in realtà, dissolvono ogni possibile opposizione efficace. Non ci si avvede come quest’Europa, oltre ad essere quel che abbiamo più volte denunciato e cioè la prevalenza escludente della Banca e della moneta, sia anche già in qualche modo una diversa potenzialità: quella persistenza della civiltà europea di cui abbiamo discusso a lungo, insufficiente, incompiuta ma che costituisce un elemento di resistenza rispetto agli aspetti più drammatici della globalizzazione neoliberale.
D. – Ds e centrosinistra si mettono nel solco dell’allineamento berlusconiano a Bush?
R. – Questa sinistra moderata che ha parlato tanto d’Europa la vede solo sotto la specie di Maastricht ma non sotto quella d’una resistenza democratica. E’ un significativo insieme d’una deriva economicista e di un’incapacità di leggere il movimento di massa contro la globalizzazione capitalistica, come anche le forme di resistenza più storicamente radicate. E’ come se questa sinistra che si pretende riformista fosse prigioniera dell’istante, precisamente secondo il codice di questa globalizzazione, e attraverso di esso della governabilità: incapace di un messaggio sul passato e sul futuro. Succedeva così quando erano al govero, ma la cosa incredibile è che nemmeno la collocazione all’opposizione costiutuisce per loro un’occasione di resistenza al risucchio.
D. – Ma allora, non può essere che la vera irruzione della politica in questo quadro d’omologazione venga proprio dal nuovo movimento, e che per questo lo si esorcizzi? La formazione di Social Forum nei vari territori non è l’apertura d’un nuovo laboratorio politico e sociale?
R. – Secondo me quest’occasione ci può essere. Mi ha sempre colpito il possibile uso in forma di metafora d’una vecchia storia operaia: un documentario, presentato prima delle giornate del G8, è stato intitolato “Andiamo a Genova”, riprendendo un modo di dire operaio. Quando si producevano le lotte, a Ponente come a Levante, nelle aree periferiche e industriali di quella città, quando la lotta si risolveva a proporsi un elemento di unificazione, si diceva così. Per dire “andiamo al centro della città a manifestare, a far valere la nostra istanza”. Andiamo a Genova per poi ritornare nelle fabbriche e nelle periferie, ricaricati di questa forza, a riorganizzare la lotta sulle condizioni quotidiane di vita e di lavoro. Userei questa come la metafora di cui abbiamo bisogno. In tal senso la costruzione di Social Forum locali può ricalcarla: può significare il tornare in luoghi e su temi che producano le articolazioni di questo movimento e insieme la sua continuità.
D. – Intanto, ci sono altre scadenze centrali: a partire proprio da quella di Napoli.
R. – Bisogna passare di nuovo per Napoli in settembre in occasione della riunione della Nato, come anche per la manifestazione del Prc del 29, e come unitariamente per la Marcia Perugia-Assisi e per la manifestazione di novembre in corrispondenza con il vertice Fao. Ma, davvero, bisogna farlo nello spirito d’un attraversamento per andare oltre. Considerandoli non già appuntamenti esaustivi, bensì luoghi di accumulazione sociale, culturale e politica: in grado di costruire, stavolta sì, un clima, contro quello presunto e inesistente che si pretende generi violenza.
D. – Quale clima, per quali frutti?
R. – Il clima che questo movimento deve creare è quello favorevole a far continuare e vincere la lotta dei metalmeccanici, a riaprire un discorso di mobilitazione con la riapertura dell’anno scolastico, a riprendere tra le mani il tema dell’ambiente e della salute come grande nodo della critica alla mercificazione capitalistica. E così radicare la capacità di costruire, dopo il disgelo e il nuovo vento che ha spirato, una Costituente di questo “movimento dei movimenti”.