Bertinotti: «Il compito della sinistra è battere il capitalismo delle rendite»

Intervista al segretario di Rifondazione Comunista, su strategie per il futuro, ruolo dell’Unione, questione morale, Bankitalia e scalate

Fausto Bertinotti è il segretario di Rifondazione comunista. E questo giornale è l’organo del suo partito. Che tutti i giorni, segue, commenta, discute la “politica”. Ma l’intervista non parte da qui. Perché Bertinotti, al telefono, in vacanza, esordisce con una battuta, personale forse più che politica, che rivela il suo stato d’animo. «E’ tutto così deprimente. Di più: demoralizzante. Che viene voglia di non parlarne». Voglia di non parlare delle intercettazioni, dello scandalo della pubblicazione di quelle intercettazioni. Voglia di non parlare del fatto che le ultime rivelazioni tirano in ballo anche alcuni leader del centro-sinistra. Fassino, Rutelli, Marrazzo.

Allora, non si può commentare?

Io ho una difficoltà più degli altri.

Quale?

Vedi, in questi momenti vivo una contraddizione impressionante. Perché da un lato vorrei restare coerente con i discorsi fatti in questi giorni. Insomma, io credo che le intercettazioni vadano usate con molta cautela da parte dei giudici. Ed è brutto, assai brutto quando quelle intercettazioni vengono rese pubbliche. Per questo continuo a pensare che un partito come il nostro – lo credo di tutta la politica ma intanto parliamo di noi – non debba farsi coinvolgere in questo gioco.

Stavolta forse però non si può tacere del tutto, non è così?

In qualche modo sì.

Cos’è che ti ha colpito di più delle ultime rivelazioni del Corriere?

Lo smacco della politica. Sì, la cosa che ti salta subito agli occhi è che la politica è sotto schiaffo. Non sa quel che dovrebbe sapere, non agisce e via via si fa privare della sua capacità decisionale. E’ demoralizzante.

Parli di politica. Ma la novità è che “sotto schiaffo” ora sembrano esserci anche partiti alleati di Rifondazione.

Calma. Credo che sia importante innanzitutto non perdere mai di vista la gerarchia degli avvenimenti. Passami un neologismo: non dobbiamo mai perdere di vista la gerarchia dei “coinvolgimenti”.

Ci sono scalate e scalate, insomma?

Sì, la penso esattamente così. Perché mi pare evidente che c’è un punto che merita di essere indagato sopra gli altri. Riguarda il coinvolgimento del presidente del consiglio nell’assalto alla Rcs, ad uno dei più grandi e autorevoli quotidiani italiani.

E cosa rivelerebbe? Voglia di espandere ancora il suo dominio sui media?

Forse anche qualcosa di più. Per farla breve: credo che sia ragionevole pensare che Berlusconi già sconfitto politicamente e destinato alla sconfitta elettorale, pensi ad un suo riposizionamento, ad un riposizionamento forte, nell’economia. Suo, del suo gruppo ma anche al centro di un nuovo blocco sociale.

Ti faccio un esempio, così ci capiamo meglio: quando tempo fa, noi riproponemmo la necessità di tassare le rendite, non c’è stato la solita levata di scudi. Tanto era ed è evidente la necessità di andare in quella direzione. Addirittura nel governo si levarono voci di consenso, pensa ad Alemanno. Bene, a quel punto intervenne personalmente Berlusconi per dire che non solo non se ne faceva nulla, ma che, per lui, il capitolo era chiuso. Era un segnale, insomma: sconfitto in politica, torna in economia per riaggregare, per una nuova alleanza con la rendita, con queste settori “emergenti”, c’è chi li chiama così, del capitalismo italiano.

Alleanza sociale, con quali obbiettivi?

Hai colto nel segno. Perché davvero non sono in grado di risponderti. Stiamo vivendo una fase caoticissima, di transizione. In cui emergono forze aggressive, la nuova rendita che si contrappone alle istituzioni di comando preesistenti del capitalismo. Forze aggressive che, sconfitte sul terreno politico, tornano all’economia. E non si vede uno sbocco preciso, tutto è abbastanza oscuro. Pensa solo che la Banca d’Italia, organismo che per definizione dovrebbe essere lontano da qualsiasi sospetto, dovrebbe essere il più lontano da qualsiasi idea di connivenza, è al centro di questo marasma.

Qualcuno, cinquant’anni fa, avrebbe detto che la situazione è caotica, quindi eccellente.

Quel qualcuno di cui parliamo forse aveva ragione allora ma sicuramente ha torto oggi. Perché anche a noi che siamo per definzione avversi al capitalismo, non ci è dato di gioire. Perché il capitalismo malato rischia di infettare tutto. Rischia di travolgere tutto. La situazione è davvero difficile, dura. Anche se certo non mancano punti di resistenza. Pure nelle istituzioni. Pensa solo alla Consob e al lavoro di eccellenza che sta svolgendo in questi frangenti.

Ma lo scontro è tutto e solo fra potentati economici?

Te l’ho già detto prima. In questo quadro emerge la povertà della politica.

E a sinistra?

A sinistra emerge la povertà di una politica deideologizzaata.

Che vuoi dire?

Che prima, all’epoca delle tanto vituperate ideologie, la sinistra aveva grandi opzioni sulla società. Aveva in mente una società, organizzata attorno ad alcune grandi categorie: salari, profitti, rendita. Si discuteva, si litigava, si rimpeva o ci si alleava fra chi sosteneva la necessità dell’autonomia della classe e fra chi predicava un patto fra produttori. Ma dentro quello schema. Ora invece la deologizzazione ha lasciato spazio solo ai potentati, alle lobby.

A questo punto, ad una domanda non si sfugge: cosa rimproveri ai diesse?

Una cosa sopra le altre: la loro analisi del capitalismo. E bada che dentro questa analisi errata c’è anche la questione morale, così come l’abbiamo proposta.

Forse è meglio andare con ordine. L’analisi sbagliata di Fassino.

Qual è? Quella che porta i diesse a scegliere una presunta neutralità – voglio fermarmi alle loro dichiarazioni, perché ripeto a me le intercettazioni non appassionano -, la loro presunta neutralità fra i diversi protagonisti dell’economia. Rifiutandosi di indagarne la loro natura.

L’errore dov’è?

L’errore è quando D’Alema dice che non esistono due capitalismi. Esistono, invece. Eccome. Perché c’è un capitale produttivo che nella storia di questo paese ha certo fatto profitti ma ha anche determinato le condizioni per cui si sviluppasse il conflitto sociale. E dentro il capitalismo produttivo ci sono ulteriori differenze. Pensa alle imprese pubbliche, alle partecipazioni statali, a quanto di diverso, spesso, hanno significato rispetto alla Confindustria sul terreno delle relazioni sociali, dell’innovazione, delle professionalità.

Tutto questo si contrappone a cosa?

Al capitale finanziario che nel nostro paese ha origine da quello immobiliare. Aggressivo, scatenato, disinvolto. Che fa soldi con i soldi, che non produce, che non accetta mediazioni sociali. Che anzi: meno mediazioni sociali ha, più cresce. Facendo aumentare in modo esponenziale le sue ricchezze. Ricchezze, bada bene, che in qualche misura erano tassate. Tasse che invece il governo delle destre ha tolto, liberando risorse per le loro scalate.

Scusa la brutalità: ma vuol dire che occorre parteggiare per la Fiat contro Ricucci?

Non di questo si tratta, ovviamente. Basta pensare all’importanza della piattaforma dei metalmeccanici e al rifiuto della Federmeccanica a discuterla. E noi siamo schierati: siamo dalla parte dei metalmeccanici. Ti aggiungo una cosa però: dalla crisi del capitalismo italiano si rischia di uscirne con una regressione. Se vincessero le forze della rendita. Perché quelle immense risorse a loro disposizione produrranno solo altre scalate. Prima, anni fa, si ragionava sul chi, sul come, sul dove e sul cosa produrre. Ora si riflette su una sola domanda: chi scali? E lo fanno al di fuori del controllo della politica. Al di fuori persino di un’idea di pluralismo e di equilibrio dei poteri economici. Ecco, prima mi chiedevi se parteggiassi per le imprese. Ripeto: certo, che no. Ma il sistema del “salotto buono”, come lo chiamate voi giornalisti, il sistema di Mediobanca per capire, consentiva di regolare i rapporti interni ai padroni del vapore. E questo permetteva anche la possibilità di sviluppare il conflitto sociale, permetteva la possibilità di intervento pubblico. Permetteva di diversificare l’offerta. Ora no.

Ricucci, Scoppola, Gnutti: sono loro gli avversari. E’ così?

La rendita lo è. Anche perché in questa fase la propensione del profitto è ad impastarsi, a sua volta, con la rendita. Io dico solo che le immense ricchezze prodotte dalla rendita vanno tassate e colpite. Del resto non ci sono molte altre alternative. Fortunatamente nessuno, nella coalizione dell’Unione, pensa ad una politica di lacrime e sangue. Certo, però, ci sarà la necessità di aggiustare i conti senza intaccare, ma anzi al contrario, facendo crescere i servizi, la loro qualità. E i soldi dove si vanno a prendere? Sì, è una necessità per il paese reperire lì le risorse necessarie.

E qui, dicevi, c’è la questione morale.

Esattamente, è dentro questa questione sociale. Perché la vulgata sostiene che sia una malattia della politica. Sono convinto dell’esatto contrario. E’ una malattia sociale. In un paese che tiene sotto botta i salari, in cui il capitale produttivo declina, in cui si accumulano enormi ricchezze sempre in meno mani e queste ricchezze portano con sé un impoverimento generale. Portano corruzione. Sta qui la mia critica ai diesse. Io non li ho mai accusati di essere corrotti, non lo penso, non l’ho mai pensato. Ma non possono rispondermi: siamo gli eredi di Berlinguer, che per primo ha posto il tema della malapolitica. Io dico che la questione morale è in quell’analisi sbagliate, la risposta deve essere nelle battaglie che dobbiamo fare, è nella riscoperta dell’autonomia della politica. Per questo è parte integrante del programma che dobbiamo far nascere assieme. Anzi forse ne è una premessa.

A chi ti dice che quegli alleati è meglio lasciarli che trovarli?

Dico che non può essere un criterio, questo, davanti alle difficoltà. C’è una battaglia da combattere, da vincere. E mai come adesso credo che siamo in grado di poter esercitare una vera e propria egemonia sul resto della sinistra.

Ma non c’è davvero nulla nelle cose che dicono i tuoi alleati che ti ha infastidito?

Messa così la domanda non ha molto senso. Se mi chiedi dei comportamenti però qualcosa mi sento di dirla.

Cosa?

Non riguarda, beninteso solo il merito delle vicende di cui parliamo. Anche se io resto convinto che la soluzione spagnola per la Bnl si sarebbe rivelata più efficace anche dal punto di vista internazionale. Ma mettiamolo da parte questo discorso. E parliamo dell’Unipol. Ecco, io non credo che la società di assicurazione possa essere semplicemente uniformata al sistema delle cooperative. Non si può, insomma, sostenere che siccome è nata lì, in quell’alveo, io devo avere rapporti privilegiati con quell’impresa. Primo, perché l’Unipol tutto è meno che un’azienda dove si sperimentano forme di autogoverno dei soci. Lo so che nel passato, nella storia del movimento operaio, si determinavano particolari rapporti fra la sinistra e il movimento cooperativo, le sue affiliate. Ma fortunatamente ci sé emancipati da quella visione. Esattamente come il sindacato – che pure è stato vissuto, per un lungo periodo, come la cinghia di trasmissione delle forze della sinistra – si è emancipato dalla visione dei partiti e delle organizzazioni amiche. E oggi nelle imprese cooperative, il sindacato attua le stesse tecniche di conflitto delle imprese. Insomma, anche se ci fosse vicinanza – e nel caso dell’Unipol, ripeto non c’è – andrebbe preservata l’autonomia della politica.

Che non è stata difesa nella vicenda Bnl?

Io non voglio introdurre veleni. Però credo che andrebbe affermato un principio elementare: un dirigente della sinistra deve abbandonare alcune consuetudini, alcune relazione che magari sono state costruite in altre fasi della propria esperienza politica. Quando sollecitavo, quando in tanti abbiamo sollecitato un codice etico, anche a questo pensavamo. Non mi pare nulla di scandaloso.

Per contro, cos’è scandaloso?

Schierarsi nella battaglia per la balcanizzazione, per la feudalizzazione della nostra economia. Schierarsi con la rendita o far finta di essere indifferenti.

Ecco, quello è il vicolo stretto che porta al disastro.