Un uomo che ricorda le misure della sua camicia, scriveva Solgenitsin, ha dimenticato qualcosa di importante. Fausto Bertinotti, che ricorda sempre di abbinare la cravatta ai calzini, può aver dimenticato di aver rilasciato al Corriere un’intervista alla vigilia delle Europee 2004, in cui diceva, testuale: «L’idea di federare l’esistente, Rifondazione più Comunisti italiani più Verdi eccetera, è ridicola. Mi fa venire l’orticaria. Non avremmo alcuna capacità di attrazione». E ancora: «Per unire la sinistra radicale in Italia, com’è già avvenuto in Europa, occorre una nuova cultura, una vera operazione politica di rifondazione. Dobbiamo costruire una rete. Rompere la separazione tra politica e movimenti. Fare una cosa nuova, non un baraccone o un baracchino di ceti politici…».
È successo invece il contrario. Non è nato a sinistra del Pd un vero partito; si è federato l’esistente. E a guidare il cartello elettorale è stato chiamato lui, Bertinotti, presidente della Camera in carica, e quindi con un piede lontano dall’agone della politica. “One last mission”, l’ultima missione, almeno all’apparenza. Ma per uno che ha come punto di riferimento il quasi centenario Pietro Ingrao, le elezioni 2008 potrebbero essere solo una tappa di passaggio. Bertinotti è partito lento. Troppo improvvise la caduta di Prodi e la rottura con il partito democratico di Veltroni. La nascita di una nuova forza della sinistra alternativa, da Bertinotti fortemente voluta, è stata affrettata e ridimensionata a un’alleanza elettorale, esposta alla campagna per il “voto utile”.
Il leader naturale per il partito prossimo venturo sarebbe Nichi Vendola. Che però è anche l’unico presidente di Regione della sinistra radicale; costringerlo alle dimissioni avrebbe privato l’Arcobaleno del suo avamposto, e consegnato la Puglia alla destra. Da qui l’ennesima discesa in campo di Bertinotti, ma pure un avvio stentato di campagna elettorale. Le prime settimane se ne sono andate in lamentele contro l’oscuramento mediatico, evento che per Fausto dev’essere stato una sofferenza personale. Fuori allenamento, ha patito il faccia a faccia con la Santanché. Poi, piano piano, il candidato premier ha cominciato a carburare. Un passaggio a Porta a Porta, di cui detiene saldamente il record di presenze. Una tournée sul territorio. Un paio di affondi azzeccati, contro Berlusconi e contro Veltroni. Un altro giro a Porta a Porta.
E i sondaggi, in un primo tempo disastrosi, sono tornati ad affacciarsi attorno al 7-8%, risultato che in un contesto difficile sarebbe prezioso. Bertinotti è uomo di sicuro fascino. Grande affabulatore. Anche troppo. In questi anni è stato tra i protagonisti del passaggio della politica dalla rappresentanza alla rappresentazione. Nel governo Prodi quasi non è entrato (si è accontentato di mezzo ministero, affidato a una figura non di primo piano). Ha preferito per sé la presidenza della Camera, che gli ha consentito di abbracciare Chavez populista in divisa e il presidente cocalero Evo Morales in maglione etnico (oltre a una vita mondana criticata dai giornali ma apprezzata dalla signora Lella), ma non gli ha permesso di incidere più di tanto sulle questioni reali, e tanto meno sulla vita di operai e precari.
La nuova base americana di Vicenza si fa, i Dico no. Le truppe in Afghanistan sono rimaste, le tasse sulle rendite finanziarie non sono aumentate. La sinistra radicale non ha raggiunto i suoi obiettivi, ma ha dato l’impressione di accontentarsi appunto delle rappresentazioni, come i cortei contro il governo di cui faceva parte. Ora Bertinotti ritroverà la dimensione che più ama, quella dell’opposizione. Dove sentiremo ancora parlare di lui, e soprattutto lo sentiremo ancora parlare, a lungo.
Aldo Cazzullo