Bertinotti azzera le minoranze

Nessuna concessione da parte del segretario rieletto, nei confronti delle opposizioni interne. Più accomodante con Malabarba, all’Ernesto non perdona nulla, fino al punto di arrivare a indicargli la porta: «In Italia ci sono due partiti comunisti»

Per sentire «un grande bisogno di tenerezza» interna alla «comunità condivisa» del partito, Fausto Bertinotti non dispensa propriamente carezze nel corso delle sue conclusioni del sesto congresso di Rifondazione comunista. Il suo, anzi, è un pesante affondo contro le minoranze. In special modo contro quella più cospicua: l’area dell’Ernesto di Claudio Grassi. Contestata radicalmente dal segretario su numerosissimi aspetti: dal rapporto con il movimento, al metodo di definizione del programma e di interlocuzione con gli alleati, al modo in cui è stata posta in contendere la stessa identità di comunista. Durissimo contro l’Ernesto, più che malleabile nei confronti dell’area Erre di Gigi Malabarba e Salvatore Cannavò, differentemente interlocutorio nei confronti degli inconciliabili Marco Ferrando e Claudio Bellotti, riconoscente per l’azione nella Cgil di Giorgio Cremaschi (meno per il suo flebile tentativo ecumenico interno al partito), il leader di Rifondazione rinforza nelle conclusioni l’impostazione della sua relazione introduttiva, la «ricerca» come la chiama lui, e la circostanzia rispetto al partito e alla sua azione. Nel senso che tira diritto e accelera lungo il solco indicato.

Ed è esattamente in questa chiave che la contestazione si fa asprissima nei confronti dell’Ernesto. Lunghissimo l’elenco dei rimproveri: dalla violenza verbale non mitigata alle richieste di gestione unitaria che appaiono «strumentali», a chi non si è alzato in piedi dopo la lettura della lettera di adesione al Prc di Pietro Ingrao, a chi ha snobbato gli appuntamenti della sinistra europea, a chi ha invitato gli esponenti del Pdci alle proprie feste di componente, a chi contestava la partecipazione alle manifestazioni di Genova e non ha mai detto di essersi sbagliato, a chi ha costretto a «passare intere sere con i compagni a spiegare che non voglio togliere la parola comunista», a chi ne rivendica l’esclusiva e lo rinfaccia. Anche perché «ci sono due formazioni» comuniste in Italia, quasi indica la porta il segretario (che a margine escluderà la pulsione scissionista da parte sua come degli oppositori).

Se Rifondazione rinasce anche nella rottura con il Pdci, Bertinotti non vuole quel passato nelle ali. Perché, se con le minoranze di sinistra c’è un percorso comune per un lungo tratto, intermittente, punteggiato di elementi di dissenso come ad esempio sul tema controverso della nonviolenza che poi innerva il rapporto con i movimenti e le prese di posizione sulle vicende internazionali, che si ferma solo di fronte all’ingresso di palazzo Chigi, con la minoranza di destra c’è invece una cesura che va a fondo fino alla ragion d’essere e di comportarsi di Rifondazione, non dissimile proprio da quella che si produsse con Armando Cossutta ai tempi della rottura con il governo Prodi.

Cosicché a Malabarba, che aveva messo a disposizione il proprio ruolo di capogruppo al senato, Bertinotti rivolge un invito affinché continui a ricoprire l’incarico. E lo stesso per Cannavò nel ruolo di vicedirettore di Liberazione. Così come il segretario apre le porte della rappresentanza istituzionale per tutte le correnti. Secondo il principio «irrinunciabile» della libera organizzazione del dissenso, vincolato solo al mandato elettorale: cioè alla voto di fiducia al governo e alla coalizione in cui si è stati eletti.

Eppure nella fiducia tolta a Prodi il vincolo fu strappato dal Prc stesso. Ma rispetto ad allora per Bertinotti, come per il calendario, è trascorso «un secolo». Anche se rievocare la rottura con Prodi basta meglio delle altre argomentazione proposte dal palco a respingere una delle accuse che più irritano Bertinotti: «Governista a chi?», sbotta il segretario.

«E’ cambiato il secolo». Allora correva il tempo in cui erano i sindacati a non volere le 35 ore e a non avere il coraggio dello sciopero generale («ne avessero fatto solo uno staremmo tutti meglio»); il tempo in cui anche Rifondazione «ha sbagliato» sulla legge Turco-Napoletano. E da allora quelle che vengono contestate come le «svolte» sono invece il percorso di ricerca bertinottiano: «Cosa saremmo oggi?» senza la rottura con lo stalinismo, la nonviolenza, Genova, i movimenti. Tutto il percorso descritto con la metafora del «viaggio». Lungo il quale c’è stato l’incontro con la Fiom, con l’Arci, con pezzi di cattolicesimo. Invece, lamenta il leader, «guardate solo Fassino…».

Ed è lungo quel percorso che «il dissenso più radicale» all’interno del partito diventa quello che riguarda la formazione del programma, cioè i «paletti» invocati sempre dall’Ernesto. Mentre per Bertinotti è una sorta di work in progress composto dal prendere piede della domanda di intervento pubblico in economia, dal salario sociale («senza lavorare: vi dice qualcosa questa diavoleria?») abbozzato nella regione Campania, dal no alla privatizzazione dell’acquedotto pugliese diventato parte integrante del programma di Nichi Vendola, dalla lotta degli insegnanti contro la riforma Moratti che ha rimesso in discussione quella di Berlinguer. Anche se un paletto in realtà c’è, e ben piantato. Si chiama guerra. E pace. Una pace diventata, guardacaso, maggioritaria.