Le cronache del secondo sedicente congresso di Forza Italia ad Assago hanno concordemente messo l’accento sugli elementi di crisi che offuscano l’immagine di Berlusconi (sempre più preda della paranoia da «fortino assediato») e che lasciano presagire un insuccesso elettorale del partito di maggioranza relativa. Persino qualche ministro forzista si è abbandonato al pessimismo, ammettendo che «nel Paese il vento è cambiato» e accusando di tradimento gli industriali, che – dopo avere incassato soldi e benefici (abolizione dell’art. 18, legge 30 del 2003, ecc.) – tornano a puntare sull’Ulivo. Può ben darsi che le cose stiano così, anche se sarebbe bene evitare trionfalismi. Resta comunque da capire in quale paese ci troveremo a vivere quando ci saremo finalmente sbarazzati di questo governo e del facinoroso che lo presiede.
Berlusconi non nasce dal nulla. Certo, è personalmente responsabile di enormi guasti, a cominciare dalla legittimazione di comportamenti e modi di pensare antisociali che hanno inferto durissimi colpi al già gracile spirito pubblico degli italiani. Dieci anni di intermittente berlusconismo hanno causato danni morali e materiali incalcolabili, per aver lasciato briglia sciolta alla nostra borghesia compradora (ricordate l’«arricchitevi!» di craxiana memoria?), per aver sfasciato l’unità politica e sociale del paese e mandato in malora il suo apparato produttivo, per aver privatizzato il privatizzabile e soffocato il pluralismo dell’informazione. E per avere scatenato ovunque (dalle televisioni alle istituzioni) un’orgia di volgarità, che è il vero metro della capacità egemonica dell’attuale premier. Ma Berlusconi è a sua volta un sintomo, e la malattia di cui è espressione non scomparirà per il semplice fatto che – speriamo al più presto – lo si sarà mandato a casa.
Questa malattia ha molti nomi – neoliberismo, modernizzazione, globalizzazione – e la molteplicità delle definizioni non favorisce la chiarezza della diagnosi. Di certo c’è che essa scoppia negli anni di Reagan e dilaga con la fine del bipolarismo, dopo il 1989-91. Da allora – venuto meno pressoché ogni punto di resistenza all’offensiva capitalistica – le politiche economiche hanno mirato allo smantellamento dei diritti sociali e a precarizzare il lavoro; le politiche istituzionali hanno accresciuto i poteri degli esecutivi e ridotto lo spettro degli interessi rappresentati; le campagne ideologiche hanno messo in discussione l’esistenza stessa delle società (salvo attizzare comunitarismi razzisti). Ed è puntualmente tornata la guerra, divenuta ormai strumento ordinario per la regolazione dei rapporti internazionali. All’inizio era ammantata di umanitarismo e protetta da una parvenza di legalità internazionale. Adesso viene proclamata senza reticenze, viene rivendicata come unico baluardo della nostra «civiltà superiore». E porta con sé – come sempre – la devastazione dello Stato di diritto, lo scatenamento della brutalità dei poteri sugli oppositori e sui soggetti più esposti (detenuti, stranieri, poveri e marginali), la diffusione delle ansie e delle invocazioni di maniere forti da parte di ceti medi e masse popolari.
Ora, qual è il punto? Il punto è che purtroppo, in Italia come in tutto l’Occidente, la storia di questi quindici anni non è stata fatta solo dalle destre. Un reaganismo più o meno temperato fa ormai parte del patrimonio ideologico di vasti settori della sinistra «normale», incapaci di distinguere tra modernizzazione e nuovi trionfi del capitale privato. Le culture neo-liberali hanno conquistato adepti persino tra i critici più intransigenti del capitalismo, sensibili alle apologie del «sociale» e alle invettive contro lo «statalismo». E l’ideologia della «guerra umanitaria» ha contagiato molti tra quanti dovrebbero sapere che le vie dell’imperialismo sono numerose, se non proprio infinite.
Questo, se non ci si vuol prendere in giro, è accaduto, e questo è ancor oggi lo stato dell’arte. Riconoscerlo non significa perdere di vista le differenze tra destra e sinistra, ignorare il devastante salto di qualità determinato dalla presidenza Bush o la regressione prodotta, sul piano politico ed etico, dal ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi. Significa, piuttosto, non scambiare lucciole per lanterne. Bisogna sapere che l’eventuale cacciata di Berlusconi non sarebbe che l’inizio di una nuova lotta di liberazione, che si annuncia aspra e di non breve durata. Si tratta di ricostruire quel senso comune democratico che negli ultimi tre lustri è stato sistematicamente destrutturato per mezzo di revisionismi, liquidazionismi e nuovismi di vario genere. Occorre recuperare un nuovo sentimento di appartenenza a quella comunità dei liberi e degli eguali che la Costituzione antifascista chiama «popolo sovrano». Per realizzare questa opera serve l’apporto di tutti, della politica nelle istituzioni come dei movimenti. Per mettervi efficacemente mano, non c’è che un modo: far valere, da subito, il più assoluto rifiuto della guerra, divenuta cardine fondamentale del sistema di accumulazione e di dominio internazionale della superpotenza americana.