Due affermazioni dirompenti. Di quelle destinate a suscitare dibattito. «Mi chiedi come immagino la sinistra del futuro? Penso ad un partito che raggruppi tutto ciò che di buono si muove alla sinistra del partito democratico». Sì, un partito, che magari sarà una parola «demodè» ma «fino ad oggi non vedo una forma sostitutiva». Di più: questo partito andrebbe fatto subito. «A tappe accelerate». Giovanni Berlinguer, il professore, l’intellettuale, uno dei più autorevoli studiosi italiani di medicina sociale, oggi eurodeputato fra le fila del Pse, esattamente sei anni fa, fu candidato dalla minoranza dei ds a sfidare Fassino per la carica di segretario. Ora anche lui, pochi giorni prima che cominciasse il congresso di Firenze, ha annunciato pubblicamente che non entrerà nel piddì.
Qualcuno ha però notato che la tua scelta – capace di influenzare comunque molte altre persone – sia arrivata un po’ in ritardo. A ridosso delle assisi del definitivo scioglimento dei diesse. Come mai, avevi dubbi?
Francamente non mi pare che le cose stiano così. Io ho sempre, pubblicamente, dubitato dell’utilità del partito democratico. Ho sempre accompagnato tutte le scelte della componente a cui faccio riferimento. Io non mi ricordo un solo caso in cui abbia avuto una distinzione con le scelte di Fabio (Mussi, ndr). Certo, ho pensato a lungo sulla vicenda. Se mi permetti: ho meditato molto su cosa fosse giusto fare. E se mi permetti ancora, sui giornali ho parlato esattamente quando mi hanno chiesto un’intervista. Gli altri, i miei compagni, hanno sempre saputo come la pensavo.
Sei stato a Firenze?
Sì, certo
E come ti è sembrato quel congresso?
Magari ti stupirò, ma credo sia stato un bel congresso.
Bello?
Sì, bello. E soprattutto serio. Come ti posso spiegare? L’occhio, molto spesso anche se non sempre, mi è parso rivolto soprattutto al paese. Con una discussione, certo basata su due ipotesi alternative, ma senza invettive. Tranne forse qualche tentativo di intimidazione o qualche paternalismo da parte della maggioranza.
Eppure un po’ tutti gli osservatori hanno spiegato che se c’è stato un congresso “in politichese” è stato proprio quello di Firenze.
E si sbagliano. Si è parlato molto del paese. Tanto più rispetto al precedente congresso, in cui il dibattito era tutto rivolto all’interno del partito. Vi ricordate la discussione sulla Fed, la federazione dell’Ulivo, ecc? Ecco, quello era un dibattito lontano dal paese. Stavolta no.
E cos’è accaduto davvero la settimana scorsa?
Che una parte maggioritaria del partito, ha scelto di sciogliersi in un progetto più ampio. Ma necessariamente – sottolineo, necessariamente – quella scelta ha creato una situazione in cui un grande partito di sinistra, di sinistra democratica, diventa necessità impellente. Ma ti dico di più: diventa anche possibile.
Perché oggi è più possibile di ieri?
Per tante cose. Una sopra le altre, però: perché oggi c’è una chance di unità fino a ieri impensabile.
Più nel dettaglio: cos’è cambiato in questi anni?
Innanzitutto la collocazione di tutta la sinistra. Oggi tutti condividiamo le responsabilità di governo. Oltre ad avere responsabilità istituzionali, altrettanto rilevanti. Secondo, e ancora più importante. E qui parlo soprattutto di Rifondazione. E del suo cambiamento – se mi permetti: morale prima che politico, forse addirittura più morale che politico – che l’ha portata alla scelta della non violenza. Scelta che è diventata una pregiudiziale per il rapporto con le altre forze politiche e sociali. Terzo: una maggiore capacità di intervento sul piano sociale. Anche qui, penso soprattutto a Rifondazione e alla sua nuova capacità di sviluppare proposte proprie, realizzabili. Lontane mille miglia da qualsiasi demagogia.
E’ cambiata tanta parte della sinistra d’alternativa. Forse sarà cambiata anche la sinistra ds, o no?
A voler essere sinceri, è cambiata meno degli altri. Io vedo che si è battuta soprattutto sulle questioni ambientali e sul lavoro. I temi che appunto dovranno essere al centro della nuova formazione di sinistra.
Magari, a voler fare i pignoli, qualcuno potrebbe dire che la sinistra ds avrebbe dovuto avere più coraggio negli anni scorsi. O neanche questo è vero?
Il coraggio? Scusami, ma non è una categoria misurabile. Quindi non saprei cosa risponderti.
Tutte queste cose assieme come ti fanno immaginare la sinistra del prossimo futuro?
Ti rispondo, ma permettimi una premessa. Questa: pure se ho contrastato quella scelta, sono convinto che anche nel partito democratico persisteranno idee, progetti di sinistra. Ed esisteranno persone che se ne faranno interpreti.
Quindi non è vero che il piddì sarà neocentrista?
Diciamo che non è un processo già consumato. Certo, è un processo che va in quella direzione. Ma vedo anche resistenze, scontro di posizioni. Fra un centro-sinistra del partito, un centro ma anche una sinistra interna. Insomma, io credo che comunque il nuovo soggetto della sinistra dovrà avere un rapporto coi democratici. Questo mi sembra scontato. Anche se….
Anche se cosa?
Sono convinto che dobbiamo evitare un rischio che invece vedo molto presente. Quello di considerare il piddì come un’entità qualitativamente superiore al resto della coalizione di governo.
Che vuoi dire esattamente?
Che al di là della consistenza quantitativa dei democratici – e tutto ci dice che in questo caso i numeri non sono affatto sicuri – la cosa che occorre impedire è che il piddì si attribuisca una sorta di virtù genetica. Come se fosse la guida precostituita dell’Unione.
Stai parlando del futuro leader della coalizione, se ho capito bene.
E che, vogliamo introdurre una nuova figura di leader: quello obbligatorio? Il leader coattivo? Non scherziamo. Sarà la coalizione a sceglierlo. E aggiungo: lasciamo anche perdere il linguaggio utilizzato in queste settimane. Per cui i democratici si definivano con un vocabolario nautico: “il timone”, o automobilistico: “il motore”, fino ad arrivare alla filosofia: “egemoni”. Smettiamola.
Torniamo ai progetti per la sinistra.
Io so che se c’è una categoria vista con ostilità da parte degli italiani, questa è proprio quella dei partiti. Ricordo un recente sondaggio secondo il quale solo al 12% degli intervistati piaceva la parola “partito”. Vale quel che vale ma é abbastanza indicativo. Io invece penso che un partito, un partito unitario della sinistra, di questa sinistra democratica,
possa essere un punto di partenza. Tanto più che non vedo all’orizzonte forme sostitutive dei partiti.
E le tappe di costruzione di questa formazione?
Una cosa: devono essere accelerate. Perché è un’occasione irripetibile. Perchè c’è buona volontà fra le forze che sono interessate a questo cambiamento, perchè – lo vedo, lo sento – c’è un’aspettativa enorme. Soprattutto, fai attenzione, fra i tanti che in questi anni si sono tormentati, si sono allontanati e che invece ora potrebbero partecipare attivamente a questo progetto. E poi penso ai giovani, alle donne. E ovviamente al mondo del lavoro. Ti ripeto: i segnali che colgo vanno tutti in questa direzione.
Quindi neanche tu pensi ad un semplice assemblaggio dei partiti esistenti?
Io non ho nulla contro i partiti esistenti. E ti rispondo che la formazione dovrà “anche” metterli insieme. Il problema, però, è che il centro di tutto devono essere i contenuti, le scelte programmatiche. Una forte apertura al nuovo, un ricambio reale delle idee e delle persone.
Per capire: hai in mente qualche esperienza concreta? Qualche paese che possa aiutare questo progetto? Non so, la Germania della Linke?
Non so se la mia risposta sarà proprio calzante rispetto alla tua domanda. Però voglio dirti che mi sento molto vicino a quel che sta accadendo in America Latina. Lo sai che per 30 anni ho lavorato a stretto contatto con quei paesi, dove sono stato anche per lunghi periodi. E penso per esempio a Lula, che ho conosciuto quando era solo il segretario dei metalmeccanici di San Paolo. E a cui ho dato una mano a costruire un progetto sulla salute e sulla sicurezza in fabbrica.
E ora Lula è presidente.
Il Brasile, certo. Ma non solo. Perchè io vedo un enorme dinamismo politico. Certo molto diversificato ma ovunque si possono registrare cose straordinarie.
C’è un tratto comune in quelle esperienze?
Io penso di sì. E si trova nelle scelte politiche di governi che vogliono rendersi indipendenti dagli Stati Uniti. Indipendenti, non ostili, anche se continuano la collaborazione con l’America, in campi che vanno dall’economia alla cultura. Ed è un tratto che unisce tutti: dal dirigente operaio come Lula, a Tabaré Vasquez in Uruguay, che è diventato presidente grazie alla battaglia contro la privatizzazione dell’acqua. Dal presidente indio della Bolivia alla prima donna dell’America Latina, la Bachelet in Cile, fino all’argentino Nestor Kirchner, la cui importanza viene forse poco considerata. Insomma, tutto quest’immenso continente, da Capo Horn all’Alaska, sta assistendo a cambiamenti inimmaginabili. Di più: anche altri due presidenti, come Chavez o lo stesso Castro, pur in diverse situazioni, contribuiscono alla crescita del continente, introducendo elementi dialettici. E tutta insieme l’America Latina si batte per liberarsi dalle tenaglie del Fondo Monetario, della Banca Mondiale, per spostare risorse verso i lavoratori, i bambini, i disoccupati, i malati.
E queste esperienze hanno qualcosa da insegnare all’Italia?
Non voglio essere frainteso: io non penso all’America Latina come ad un modello. Troppo differenti le situazioni che non vale la pena spenderci altre parole. Però da lì viene un segnale: di quello che si può fare. Soprattutto se si afferma un modo di fare politica, di fare lotte in stretto rapporto con le persone, con i cittadini. E questo è un insegnamento che va al di là del continente sudamericano.
Visto che si parla di riferimenti internazionali, una domanda è d’obbligo: questa nuova formazione della sinistra la immagini “dentro” il socialismo europeo? E perch i partner di questo nuovo partito dovrebbero starci?
Non abbiamo proprio questa intenzione; e il nome di cui stiamo discutendo é “Sinistra democratica – per il socialismo europeo”. Comunque sono abituato a pensare: una questione alla volta.
Ma intanto puoi dire che cos’è davvero questo socialismo europeo? Evocato in tutte le discussioni, sembra una molla che tutti tirano dalla loro parte. Non hai questa sensazione?
Io ne faccio parte. E so che è stato il fulcro di tante battaglie politiche. Certo, non fatte da soli, ma in rapporto al resto della sinistra, su grandi temi sociali. Ed anche assieme al gruppo liberaldemocratico, soprattutto su ciò che riguarda i diritti civili. E ancora: vedo che il socialismo europeo esprime molti segnali di movimento. C’è insomma una diffusa consapevolezza che la grande conquista del secolo scorso, lo stato sociale – che poi significa: non solo libertà ma anche giustizia sociale – si sta erodendo. E non per colpa di chissachì. Per responsabilità di chi ha disegnato un’Europa in cui pesano le merci e non le persone. Su questo sta crescendo la consapevolezza nel socialismo europeo.
L’ultima cosa, la più scontata. Come hai vissuto personalmente il congresso di Firenze? Lo stesso travaglio, lo stesso dolore della Bolognina?
Qualche affinità c’è stata. In ambedue i casi ho percepito subito il tormento di un dramma e al tempo stesso un senso di liberazione verso idee e progetti nuovi. Sì, vedo nuove opportunità che si manifestano. Nuove energie, nuove idee. Insomma, vedo un futuro per la sinistra. Una scommessa che vale la pena giocare.