Belgio. Il popolo non vuole la scissione del paese

Domenica 23 gennaio le strade di Bruxelles sono state percorse da un’imponente manifestazione nazionale contro la ventilata scissione del Belgio. Si è trattato di una delle più grandi manifestazioni nella storia del paese e la prima di tale importanza convocata “via internet”. Infatti, l’iniziativa di questa manifestazione risale a un piccolo gruppo di giovani, studenti e impiegati, che ne hanno lanciato la proposta attraverso la rete. E’ evidente che, se l’appello di questi giovani è stato raccolto massicciamente, è perché esso rispondeva a un sentimento diffuso nella popolazione.

La parola d’ordine della manifestazione era Shame, cioè “scandalo” o “vergogna” a significare l’indignazione popolare verso i partiti che, dopo le elezioni del giugno 2010, ancora non riescono a trovare l’accordo per formare un nuovo governo. In realtà, la situazione di “non governo” del Belgio si trascina dal giugno del 2007, poiché dopo le elezioni che si tennero allora, il paese non ha mai avuto un esecutivo dalle piene funzioni, salvo che per la breve stagione del premier democristiano Van Rompuy (dicembre 2008-novembre 2009), interrotta con l’elezione di quest’ultimo alla presidenza europea, che portò di fatto alle elezioni anticipate. La situazione attuale di quello che, nell’immaginario di molti cittadini europei, è considerato un paese ricco, è in realtà piuttosto avvilente. La disoccupazione, soprattutto giovanile, è alta, l’industria è in difficoltà, la condizione dei lavoratori in peggioramento, il sistema sanitario farraginoso e insufficiente, un pensionato su quattro vive in condizioni di povertà. Si sentono già avanzare i passi pesanti del FMI che potrebbe intervenire sulla situazione del paese. E si sa che dagli interventi del FMI c’è poco di buono da aspettarsi.

A fronte di questa situazione, la manifestazione del 23 gennaio ha avuto un significato positivo, anche se non privo di ambiguità. Infatti, la parola d’ordine di “formare un governo”, che era quella lanciata in internet dai promotori, non può essere che connessa alla domanda su quale governo e con quale programma. Un governo che, appena insediatosi, cominciasse a fare una politica di attacco alle condizioni dei lavoratori e allo stato sociale non sarebbe certo una buona prospettiva. Questa considerazione ha fatto restare a casa una parte della sinistra, mentre la maggior parte ha deciso di partecipare con parole d’ordine politicamente qualificate, incentrate sulla solidarietà sociale e l’unità dei lavoratori. Tra questi ultimi, il PTB-PVDA (Partito del Lavoro) che è il solo partito di carattere nazionale e bilingue. Infatti, tutti i quattro grandi partiti belgi (riconducibili alle matrici Liberale, Democristiana, Socialista e Verde) sono divisi nei tronconi comunitari francesi e fiamminghi (della minoranza germanofona, il 3% della popolazione, si parla poco). Oltre al PTB-PVDA solo i sindacati e qualche associazione di base rifiutano la trappola del comunitarismo. Il risultato della divisione linguistica dei grandi partiti è che questi guardano la realtà attraverso la lente comunitaria e in questa logica prevalgono nell’agenda politica questioni che poco o nulla hanno a che vedere con i problemi dei lavoratori. Un esempio è l’annosa e farraginosa questione della circoscrizione elettorale di Bruxelles-Halle-Vilvorde, la cui riorganizzazione è diventata un caso nazionale, un punto chiave del confronto tra valloni e fiamminghi, ma di cui, alla gran parte dei cittadini non importa nulla perché legata solo a qualche piccolo vantaggio elettorale di una o dell’altra comunità.

Al momento, il problema principale per la formazione di un nuovo governo viene generalmente indicato nel conflitto tra i due partiti usciti vincitori dalle elezioni del giugno 2010: il Partito Socialista francofono, rappresentato da Elio Di Rupo e il N-VA (Nuova Alleanza Fiamminga) di Bart De Waewer. Questo è certamente uno dei problemi nodali, ma la questione è più complessa, perché anche all’interno del campo fiammingo esistono notevoli contraddizioni tra il N-VA, apertamente scissionista e gli altri partiti, tra cui i socialisti fiamminghi, di cui fa parte Johan Vande Lanotte, ultimo politico bruciatosi nel tentativo di arrivare a una mediazione per la formazione del governo. Egualmente, il campo della comunità francese è attraverso da forti contraddizioni interne in merito alle soluzioni da dare alla crisi del paese. Alla fine, la chiave di lettura della situazione belga non può essere quella del conflitto culturale o linguistico tra le comunità o le regioni o almeno non lo può essere in via esclusiva, come spesso viene invece indicato dalla grande stampa. La contraddizione, come quasi sempre, sta nella situazione economica e sociale. Mentre un tempo la Vallonia francofona era più ricca delle Fiandre, negli ultimi decenni le parti si sono gradualmente invertite. E il capitalismo fiammingo vede nella Vallonia una palla al piede al suo sviluppo, né tantomeno si sente di appoggiare il progetto che Elio Di Rupo ha voluto chiamare “piano Marshall” a sostegno delle zone più povere del paese. Inoltre i gruppi industriali e finanziari, come peraltro in tutti gli altri paesi europei, vogliono risolvere la crisi con l’inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari. A proposito di politica sociale e fiscale, non si deve dimenticare che il Belgio ha concesso, negli ultimi anni, enormi agevolazioni fiscali alle imprese, che arrivano a cifre che potrebbero colmare le spese sociali che, al contrario, si ipotizza di tagliare, come è stato denunciato e documentato dalla rivista Solidaire (www.solidaire.net). Uno dei progetti più importanti della N-VA è peraltro quello di un ampliamento del federalismo fiscale (Borghezio, eurodeputato della Lega, è di casa nei gruppi fiamminghi più oltranzisti, soprattutto il Vlaams Belang, dichiaratamente razzista e neo nazista).

La posta in gioco è, secessione o no, l’esistenza dello stato sociale, dei salari di disoccupazione, degli aiuti ai giovani in attesa di primo impiego, dei diritti dei lavoratori nelle imprese. Non è un caso che Bart De Waever, leader del partito separatista N-VA, abbia dichiarato che un’intesa con i francofoni si potrebbe trovare, se non votassero a sinistra (riferendosi ai risultati elettorali dei socialisti che, comunque, sono ultramoderati)! Insomma, un’intesa si potrebbe fare a condizione di concordare una linea ultraliberista.

E’ quindi chiaro che a spingere sulla divisione del Belgio non è certo il popolo fiammingo, che non ne trarrebbe alcun vantaggio, ma i gruppi capitalisti e la destra politica.

Inoltre, a soffiare sul fuoco separatista fiammingo, ci sono diversi gruppi finanziari tedeschi. Il volume degli scambi tra le Fiandre e la Germania è imponente e il porto di Anversa, secondo in Europa solo a Rotterdam, è molto importante per l’economia tedesca. Questo senza dimenticare che numerose imprese tedesche hanno investimenti rilevanti nelle Fiandre, come la Bayer o la BASF. Peraltro, il leader separatista De Waever è ormai frequentemente ospite di televisioni e giornali tedeschi. L’idea di uno staterello economicamente satellite della Germania sembra ben vista tali gruppi finanziari tedeschi.

Alla fine, è chiaro che l’obiettivo principale della battaglia che viene descritta come linguistica o culturale, sono, in realtà, le condizioni di lavoro e i salari degli operai, che sono evidentemente trasversali alle due comunità principali.

Tuttavia, il problema linguistico-culturale esiste e non va trascurato. Il Belgio è un paese dove , in spregio al suo motto “l’Unione fa la forza”, è stata condotta una politica di separazione e non di integrazione tra le tre comunità linguistiche, soprattutto dal 1993, quando fu dichiarato il federalismo. Tale riforma, che fu presentata come una valorizzazione delle identità culturali, servì piuttosto a cristallizzarle e a separarle innestando processi che oggi rischiano di avere conseguenze inopinate. In pratica, il federalismo è stato il grimaldello con cui i separatisti hanno potuto stemperare sempre più la presenza dello stato unitario.

Un esempio significativo della impermeabilità tra le comunità è il sistema scolastico, in cui l’introduzione del bilinguismo è vista come un oltraggio all’identità comunitaria. E tra i sistemi scolastici francofono e fiammingo non esiste collaborazione, ma piuttosto un’accesa rivalità, vissuta spesso nella comparazione dei risultati scolastici dei due sistemi sulla base di discutibili inchieste dell’Unione Europea (i famosi rapporti PISA). Un sistema scolastico integrato e bilingue potrebbe essere invece la premessa per una migliore comprensione e integrazione tra le comunità, ma l’introduzione del bilinguismo resta per il momento relegata ad alcune lodevoli sperimentazioni.

Mentre l’ipotesi di una separazione delle Fiandre dal Belgio viene discussa sempre più frequentemente, resta aperta la questione di Bruxelles. Il Belgio è composto da tre regioni : la Vallonia, le Fiandre e quella di Bruxelles capitale. Ovviamente, questo comporta l’esistenza di tre diversi governi regionali, e di uno federale. Insomma, in Belgio esistono quattro governi e altrettanti ministri e uffici per ogni dicastero. Il tutto in un paese di 10.000.000 di abitanti. Tutto ciò provoca situazioni politicamente e burocraticamente ingarbugliate e contraddittorie, talvolta conflittuali, che fanno il gioco di chi vuole risolverle nel peggiore dei modi, praticando la politica di gettare il bambino con l’acqua sporca

Nello specifico, la situazione di Bruxelles è paradossale, poiché la città che dovrebbe rappresentare l’unione dei 27 paesi della UE è al centro di uno scontro politico comunitario dai risultati per il momento imprevedibili. C’è chi, in vista di una scissione del Belgio ne ipotizza uno statuto da “città stato”, una sorta di, peraltro invivibile, Vaticano dell’Unione Europea, altri invece pensano a una sua cogestione da parte delle due comunità, fiamminga e vallona, abolendo il suo statuto di regione autonoma. Il progetto prevede che la città sia gestita dalle due comunità principali, con l’abolizione del suo governo regionale. Ogni cittadino sarà chiamato a dichiarare di quale comunità fa parte e avrà diritti e doveri relativi a questa comunità. E’ abbastanza evidente che si tratta di un progetto che provocherebbe enormi conflitti sociali, poiché due persone che vivono sullo stesso pianerottolo potrebbero avere sussidi, mutue, situazioni fiscali diverse secondo la comunità a cui appartengono, con le tensioni facilmente immaginabili. Un progetto che appare ancor più discutibile se si pensa che a Bruxelles, per le caratteristiche storiche della città, una buona parte degli abitanti non si identifica in nessuna delle due comunità linguistiche, in quanto di nazionalità belga ma di origini straniere (molti tra questi i belgi figli di italiani, ma anche figli di marocchini, portoghesi, turchi). Inoltre, a Bruxelles esistono molte famiglie in cui un coniuge è di lingua fiamminga e l’altro francese e richiedere una dichiarazione di appartenenza comunitaria metterebbe in difficoltà tali famiglie. La ragione di un tale progetto è che Bruxelles, in origine città di lingua fiamminga, si è nel tempo “francesizzata”, a causa dell’immigrazione e dell’installazione delle istituzioni europee. I fiamminghi, che soffrono di questa situazione, sperano che molti cittadini dichiarino la loro appartenenza alla comunità fiamminga perché essa è in grado di offrire servizi sociali migliori, perché più ricca di quella francese, riprendendo così, almeno sulla carta, un ruolo numericamente più importante.

Di fronte a una situazione tanto preoccupante, esistono comunque buoni spazi di speranza. Anzitutto il fatto che gli operai hanno ben chiaro che, siano essi valloni o fiamminghi, sono nella stessa condizione e che una scissione del paese sarebbe un impoverimento per tutti. Le lotte sindacali che hanno coinvolto imprese importanti come la Inbev o la Opel, hanno visto insieme indistintamente i lavoratori belgi e anche immigrati. Nella classe operaia avanza la coscienza che una scissione del Belgio frammenterebbe la resistenza operaia e faciliterebbe i piani di divisone e di attacco alle condizioni dei lavoratori. Su un altro versante, è bello notare che uno dei contributi più importanti alla lotta contro la scissione del Belgio viene dai giovani. Le università, in particolare a Bruxelles e a Gent, ma anche in altre città, sono state teatro di manifestazioni partecipate e vivaci in cui gli studenti hanno espresso la loro creatività contro la scissione. Importante anche la posizione di molti intellettuali, docenti universitari e artisti che hanno preso posizione pubblica contro la scissione, denunciando, nella loro componente più sensibile, anche il carattere classista dei progetti secessionisti.

La partita è dunque aperta, e le prospettive di evitare una scissione del Belgio sono buone. Tuttavia, è evidente che la lotta antiscissionista deve essere legata alla risposta all’attacco capitalista contro il lavoro e lo stato sociale, nella consapevolezza che il progetto secessionista fiammingo nasce nei circoli della borghesia e ha come fine ultimo la sconfitta delle classi popolari e la mano libera per una politica ultraliberista.