Beit Hanun aspetta l’attacco

Il numero delle automobili in strada cala di colpo mentre da Gaza city ci si avvicina a Beit Hanun, da giorni circondata dai mezzi corazzati israeliani. A breve distanza dal valico di Erez e dal confine con Israele, questa cittadina dove vivono circa 60mila palestinesi, ha cessato di vivere già alcuni mesi fa ma ha toccato il fondo negli ultimi giorni, mano a mano che è salito il livello delle minacce di rioccupazione da parte dell’esercito israeliano. A Beit Hanun gli avvertimenti di Israele vengono presi terribilmente sul serio. E l’ultimo lanciato dal ministro dell’interno Roni Bar-On pesa come un macigno sulla vita di persone che da mesi, assieme agli abitanti di Beit Lahiya, devono sopportare i colpi incessanti dell’artiglieria israeliana verso la cosiddetta «zona interdetta» da dove i militanti palestinesi lanciano razzi verso Sderot e altre località del Neghev e dove nessuno può entrare. Ciò nonostante da Gaza è stato lanciato ieri un missile che ha colpito il cortile di una scuola a Ashkelon. Non ci sono state vittime ma è la prima volta che un Qassam arriva tanto all’interno di Israele.
«Le vie di Masri (il quartiere orientale di Beit Hanun) si sono svuotate quando sono caduti i primi colpi, uno ogni due minuti. Quando le frequenza è così alta vuol dire che gli israeliani stanno preparando qualcosa. Le donne sono tornate a casa con i bambini e molti negozianti hanno chiuso», racconta un abitante, Maher Kafarna. Un’ intuizione giusta visto che nello stesso momento una ventina di carri armati e blindati israeliani hanno cominciato a muoversi verso Beit Lahiya ed altrettanti hanno preso posizione a meno di un chilometro da Beit Hanun. Nel pomeriggio un’ altra decina di mezzi corazzati si sono spinti all’interno di Gaza, fino a raggiungere l’area dove fino allo scorso anno sorgeva la colonia ebraica di Nissanit. Movimenti volti, ha detto un portavoce militare, a individuare e distruggere tunnel sotterranei come quello scavato dai rapitori del caporale Ghilad Shalit, dal 25 giugno nelle mani di tre gruppi armati palestinesi il cui ultimatum è scaduto ieri, senza che apparentemente nulla accadesse. Le fazioni hanno dichiarato ieri che non rilasceranno più informazioni sul militare.
L’entrata in azione dei carri armati è bastata a provocare le palpitazioni agli abitanti delle due cittadine. «L’offensiva israeliana è solo rinviata, noi la attendiamo da mesi – dice Kamal Dammush, un insegnante – il sequestro del soldato ha creato il pretesto per occupare il nord di Gaza. Gli israeliani in questo modo credono di mettere fine al lancio dei (razzi) Qassam ma si sbagliano perché i muqawiyyin (i combattenti) si fermeranno solo quando loro (gli israeliani) cesseranno gli attacchi aerei».
In attesa della temuta offensiva, la gente di Beit Hanun convive con le cannonate sparate a poche centinaia di metri dalle loro case. «Non posso negare che anche gli abitanti di Sderot vivono in uno stato di tensione ma le sofferenze dei palestinesi di Gaza non sono certo inferiori alle loro, anzi sono molto più gravi e diffuse», premette il dottor Muawiya Hassanin, responsabile per le relazioni con la stampa dell’ospedale Shifa di Gaza. «Negli ultimi tre mesi abbiamo registrato in tutta Gaza un aumento degli aborti spontanei – ha riferito Hassanin – e molte donne hanno partorito prima del tempo, anche tre-quattro settimane in anticipo, con grave rischio per la loro salute e quella dei nascituri». Le migliaia di colpi sparati dall’artiglieria israeliana negli ultimi mesi e il passaggio a bassa quota dei cacciabombardieri israeliani stanno facendo saltare i nervi e con essi i ritmi biologici soprattutto alle donne e ai più giovani (negli ultimi mesi 283 giovani di Gaza sotto i 16 anni hanno fatto ricorso alle cure e alle attenzioni di psicologi e assistenti sociali).
Si preparano ai giorni dell’emergenza medici e infermieri dell’ospedale Al-Awda, nel campo profughi di Jabaliya. E’ l’unica struttura sanitaria realmente attrezzata del nord di Gaza e annualmente garantisce servizi medici a circa 95mila palestinesi. E’ un opedale privato nato per assistere la popolazione più povera e le foto sulle pareti di Abu Ali Mustafa ucciso nel 2001 dagli israeliani e le bandiere rosse con la freccia che punta verso la Palestina del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, rivelano in modo inequivocabile l’affiliazione politica dell’ospedale. «Negli ultimi tempi abbiamo allargato il pronto soccorso aggiungendo letti e macchinari e abbiamo attrezzato una sala di rianimazione. Abbiamo scorte di medicinali e gasolio per i generatori sufficienti per 4 mesi ma sappiamo che se gli israeliani attaccheranno basteranno un mese soltanto», spiega Rula, infermiera del reparto maternità. La chiusura dei valichi da parte di Israele ha reso introvabili alcuni farmaci, in particolare quelli usati per l’anestesia. «Ma qui tutto sommato siamo fortunati, perché i poliambulatori di quest’area hanno finito persino la garza», aggiunge Riad alzando la voce per superare i boati delle cannonate.