Le notti di Beirut sono di nuovo agitate come non avveniva dalla fine della guerra. Da più parti si teme un possibile precipitare della situazione sia interna, con uno scontro aperto tra il fronte pro-Usa del «14 marzo» (Hariri Inc, Jumblatt, ultra-destre maronite di GeaGea e Gemayel) e quello «nazionale» (i partiti sciiti Amal e Hezbollah, il movimento del generale maronita Michel Aoun, i gruppi sunniti antiHariri di Sidone e Tripoli, il Pcl), sia esterna con Israele, che continua a mandare i suoi aerei a sorvolare a bassa quota Beirut e il sud del paese e che sta già delimitando a suo piacimento il confine tra il Golan siriano e le fattorie di Sheba libanesi, entrambi occupati.
Il veto dell’amministrazione Bush ad un «accordo di riconciliazione nazionale» tra i due campi, con un rimpasto che veda l’ingresso nel governo del «Movimento patrottico» del generale Michel Aoun e un rafforzamento della componente sciita (la comunità più numerosa), rischia ora di recidere l’esile filo di speranza costituito da un «tavolo di dialogo» convocato dal presidente del parlamento ( e leader del movimento sciita moderato Amal) Nabih Berri, al ritorno dal suo recente viaggio in Arabia saudita. Un secco no a questa ipotesi è però giunto nelle ultime ore da Washington dove si trova quello che ormai è divenuto il più fedele alleato degli Usa nella Repubblica dei Cedri, il leader druso Walid Jumblatt. Desiderosi di arrivare ad una destabilizzazione del Libano e della vicina Siria con l’uscita degli Hezbollah dal governo, la chiusura dei confini con Damasco, il disarmo della resistenza libanese e palestinese e una «cantonizzazione» «irachena» del Libano e della Siria, gli Usa hanno paragonato la richiesta del Fronte sciita-maronita (Hezbollah-Amal-Aoun) per un allargamento dell’esecutivo ad un presunto tentativo di colpo di stato ispirato da Damasco e Tehran del quale non hanno portato alcuna prova o semplice indizio. Con una gravissima violazione della sovranità libanese Washington ha praticamente definito la richiesta di un cambio di governo come una violazione della risoluzione 1701 sul cessate il fuoco. In altri termini i libanesi non potranno più cambiare il loro governo senza il via libera di Washington. Altrimenti faranno la fine dei palestinesi colpevoli di avere eletto il «governo sbagliato» e quindi fatti morire di fame e lasciati nelle mani dei loro carnefici israeliani.
Le prossime ore saranno decisive. Lunedì infatti il presidente del parlamento ha convocato l’ultima riunione del «tavolo nazionale» per verificare la possibilità di un allargamento del governo (dove Hezbollah ed Amal sono ora in netta minoranza e dal quale è assente Michel Aoun). Se vi dovesse essere un’altra fumata nera, lunedì tredici novembre l’opposizione scenderà in piazza con una manifestazione nazionale a Beirut e proporrà varie iniziative di disobbedienza civile, fino allo sciopero generale. Una strategia che punta tutto su metodi democratici e non violenti dal momento che il fronte di opposizione è ormai, dopo aver respinto l’invasione israeliana, chiaramente maggioritario nel paese, anche a livello elettorale. Una prospettiva questa che però bloccherebbe i piani Usa di usare il Libano per destabilizzare la Siria. Ed ecco di nuovo il ritorno delle bombe e degli attentati. Una potente granata è stata lanciata l’altra notte contro una caserma della polizia nel quartiere di Corniche al Mazra. Il quinto attentato notturno nella capitale, il terzo contro una caserma di polizia dall’inizio di ottobre. Non solo. Gli strateghi della tensione sembrano puntare su un nuovo precipitare della situazione proprio in occasione della manifestazione del 13 novembre prossimo augurandosi una riedizione, su scala maggiore, degli scontri, con due vittime, scoppiati alla periferia sud di Beirut tra la popolazione locale e le «nuove» forze di sicurezza del ministro degli interni Ahmad Fatfat (del partito di Hariri). Una possibilità questa che preoccupa non pochi a Beirut, a cominciare dagli stessi vertici della chiesa maronita che ieri hanno rivolto un appello alla calma a tutte le fazioni. Uno scontro frontale spaccherebbe infatti lo stesso campo cristiano dove si moltiplicano gli incidenti tra i seguaci del generale Aoun, che hanno vinto, anche se di poco, le elezioni nella prestigiosa università di Saitn Joseph e i militanti delle Forze Libanesi fedeli a Samir Geagea, il massacratore di Sabra e Chatila.