Beirut, ucciso l’editore Tueni

Una potentissima esplosione, provocata da un’autobomba, ha ucciso ieri mattina il magnate dell’editoria, proprietario del quotidiano An Nahar, e deputato cristiano Gibran Tueni, e tre uomini della sua scorta gettando di nuovo nella paura la capitale libanese e portando nuova acqua al progetto americano e francese di ottenere una sorta di nuovo protettorato sulla repubblica dei Cedri. Tanto più che l’attentato è giunto a poche ore dalla presentazione all’Onu del discusso rapporto Mehlis sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, nel quale il giudice tedesco, nonostante la ritrattazione dei suoi unici due supertestimoni, continua a considerare quale unica pista investigativa quella delle responsabilità di Damasco. Aprendo così la strada alla possibile adozione di sanzioni contro la Siria. A rendere ancor più cupa l’atmosfera del paese, venerdì notte, un importante esponente politico-religioso degli Hezbollah, lo sheik Mohammed Yazbek, è sfuggito miracolosamente allo scoppio di una bomba posta nella sua auto a Baalbek, nella valle della Beqaa mentre alcuni missili anticarro sono stati trovati sabato notte non lontano dal castello del leader druso Walid Jumblatt a Mukhtara. L’attentato ha avuto luogo ieri mattina alle nove locali sulle colline di Beirut est, la parte cristiano maronita della città, lungo la strada tra i sobborghi di Mkalles e Mansuriye, che il fuoristrada blindato di Tueni (48 anni, sposato e padre di quattro figlie) stava percorrendo diretto al suo ufficio presso il quotidiano An Nahar, del quale era proprietario e direttore, nel centro della capitale. La potenza dell’ordigno, nascosto dentro un’auto di colore rosso parcheggiata al lato della strada ha catapultato l’auto di Tueni con a bordo tre guardie del corpo in una scarpata un centinaio di metri più in basso. Gibran Tueni, noto per aver sostenuto, dal 2000, quando ereditò le redini del giornale fondato da suo nonno nel 1933, un ritiro della Siria dal Libano, l’abbattimento del governo siriano e la politica mediorentale degli Usa e della Francia, era rientrato in Libano da Parigi solo da poche ore, da domenica sera, dopo aver passato alcuni mesi nella capitale francese per motivi di sicurezza. L’uccisione di Tueni rischia ora di dividere ulteriormente il paese e lo stesso governo di unità nazionale. Il leader druso Walid Jumblatt ha infatti subito accusato il governo di Damasco, mentre i movimenti sciiti Amal e Hezbollah hanno puntato il dito contro «coloro che intendono destabilizzare il Libano» e il vicino stato ebraico. Nel corso di una drammatica riunione d’emergenza tenutasi ieri notte il governo libanese si è spaccato e di fronte all’approvazione a maggioranza di una mozione (sostenuta dal premier Siniora e dal leader druso Jumblatt) che chiede l’istituzione di un tribunale internazionale per il caso Hariri i ministri sciiti, tra i quali quello degli esteri, due di amal e due degli Hezbollah hanno lasciato la sala e «sospeso» la loro partecipazione al governo. Primo passo verso una possibile e drammatica crisi di governo. Damasco, da parte sua, ha condannato duramente l’attentato sostenendo che questi sarebbe stato organizzato proprio «per poter accusare la Siria». L’attentato di ieri è stato rivendicato in nome «dell’arabismo» da uno sconosciuto gruppo «La lotta per l’unità e la Libertà del levante». Una rivendicazione che sembra scritta più da un «neocon» Usa che da un qualche misterioso seguace di al Qaida. L’uccisione di Gibran Tueni è solo l’ultima di una nuova strategia della tensione libanese iniziata il 14 febbraio del 2005 con l’uccisione di Rafiq Hariri e seguita poi da alcuni altri omicidi eccellenti come quello di un altro giornalista di An Nahar, Samir Kassir (2 giugno), l’ex leader del Pc libanese George Hawi (21 giugno), dal fallito attentato al filo-siriano ministro della difesa Elias Al Murr, rimasto gravemente ferito (12 luglio), e dal ferimento di un’altra giornalista May Shidiak. L’attentato a Gibran Tueni è giunto a poche ore dalla presentazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu del secondo rapporto della commissione di inchiesta presieduta dal giudice tedesco Detlev Mehlis. Nel precedente rapporto, presentato in ottobre, Mehlis aveva apertamente chiamato in causa, citando alcuni testimoni «segreti», i servizi segreti siriani e libanesi. Questa volta, nonostante la ritrattazione dei due testimoni chiave Zuheir Saddiq e Hosham Hosham, il giudice Mehlis, invece di rivedere il suo rapporto, ha continuato a indicare come sospetti i vertici dei servizi siriani e libanesi. Fino al punto, senza presentare alcuna prova, di chiedere a Damasco di arrestare diciannove tra ufficiali e generali. Il giudice Mehlis inoltre chiede un’estensione del mandato della Commissione di almeno sei mesi, e accusato la Siria di «ritardi» nel rispondere alle sue domande.