Più di un milione di libanesi, forse un milione e mezzo, una moltitudine indicibile per un paese di poco più di quattro milioni di abitanti, sono scesi ieri pomeriggio in piazza nel centro di Beirut, per chiedere le dimissioni del governo filo-Usa di Fouad Siniora e il varo di un esecutivo di «unità nazionale». Si è trattato della più imponente manifestazione che la capitale libanese abbia mai visto. Un evento che potrebbe segnare l’inizio della fine per il governo Siniora appoggiato dagli Stati uniti e dall’Unione Europea ma non più dalla maggioranza dei libanesi.
L’enorme folla, esasperata oltre ogni misura dalla crisi economica, dalle distruzioni della guerra, dal rifiuto di passare da un mandato siriano ad uno franco-americano, da un governo che non ha mosso un dito durante il recente conflitto per fermare gli attacchi israeliani e che ancora non è stato in grado di avviare la ricostruzione, ha risposto al di là di ogni previsione all’appello lanciato da un vasto fronte dell’opposizione composto dai partiti sciiti di Hezbollah e Amal alla principale formazione cristiano-maronita, il Movimento patriottico libero del generale Michel Aoun, da importanti movimenti sunniti di Tripoli e Sidone ai drusi dissidenti di Arslan, dai progressisti del partito del popolo al ritorno sulla scena del movimento «Marada» (i giganti) della famiglia maronita pro-siriana dei Franjieh, dai movimenti nasseriani ai laici moderati di Selim el Hoss, ad un’infinità di movimenti locali. Rispondendo all’appello degli organizzatori, in una città presidiata da migliaia di soldati e agenti in assetto di guerra la folla ha cominciato ad affluire verso la centralissima piazza Riad al-Solh, proprio alla base della collina dove sorge il «Serraglio», la sede del governo del premier Fouad Siniora, sin dalle prime ore del mattino filtrata da un efficientismo servizio d’ordine, in borghese, del movimento Hezbollah e di quello del generale Aoun. Già due ore prima dell’inizio della manifestazione, previsto per le 15, la piazza, le cui uscite verso la collina del Serraglio erano state chiuse da rotoli di filo-spinato e da blindati dell’esercito, non riusciva più a contenere i dimostranti che si sono riversati, con il passare dei minuti anche nell’attigua, immensa, piazza del martiri – là dove sorge il mausoleo di Rafiq Hariri, l’ex premier ucciso il giorno di San Valentino del 2005 – e lungo la via Bishara el Khoury e il Jisr-Ring. Secondo quanto stabilito alla vigilia della manifestazione per dare un carattere «nazionale» e non di parte alla protesta, sulla folla oscillava al vento un tappeto di bandiere rosse, bianche e verdi libanesi. Assenti invece bandiere e vessilli di partito.
Numerosi i cartelli e gli striscioni «vogliamo un governo onesto», «Unità nazionale», «Siniora vattene», «Basta col governo Usa», «Vogliano un governo che ci faccia uscire dalla fame». Il movimento Hezbollah, tra i principali promotori della manifestazione alla quale hanno partecipato delegazioni provenienti da ogni parte del paese, ha assunto un profilo bassissimo e il leader del partito Hassan Nasrallah ha lasciato il comizio finale al leader cristiano-maronita Michel Aoun. Quest’ultimo con un discorso dai forti toni «nazionalisti» – pochi hanno dimenticato in Libano che l’ex generale fu l’unico alla fine degli anni ottanta, a combattere per l’indipendenza dalla Siria mentre i tanti politici che ora sostengono un mandato Usa anche allora si schierarono con il più forte passando dalla parte di Damasco – ha chiesto le dimissioni del governo «dell’incapacità» e del «malaffare» e ha invitato i dimostranti a rimanere in piazza in migliaia, ogni notte, fino alle dimissioni dell’esecutivo, alla nascita di un governo nel quale siano rappresentate tutte le confessioni e i principali movimenti del paese, al varo di una nuova legge elettorale.
Finita la grande manifestazione, improvvisamente sono comparsi un pò ovunque tende coperte, generatori elettrici, materassi e in migliaia di sono accampati davanti al filo-spinato bloccando le tre vie di accesso al palazzo del governo dove sono asserragliati Siniora e i suoi ministri del Fronte del «14 marzo» composta dal partito sunnita della famiglia Hariri, l’ultradestra falangista di Geagea e Gemayel, e dal partito del leader druso Walid Jumblatt. Poche ore dopo, in nottata, i dimostranti hanno sgomberato due dei tre accessi rimanendo a presidiare l’interno della piazza. Il premier Siniora, da parte sua, in una comunicazione alla stampa ha ribadito di nuovo la sua determinazione a non dimettersi e a continuare a governare- violando così , secondo l’opposizione, la costituzione e gli accordi di Taif che nel 1989 misero fine alla guerra civile – nonostante l’uscita dall’esecutivo dei ministri sciiti. Alla vigilia della manifestazione lo stesso Siniora aveva paragonato la mobilitazione ad una sorta di «colpo di stato». Pochi minuti dopo gli ha risposto il numero due degli Hezbollah, Naim Qassem: «Questo governo non porterà il paese nell’abisso e se non volesse dimettersi intraprenderemo ulteriori proteste». L’Amministrazione Usa per bocca del portavoce del Dipartimento di stato, Tom Casey, commentando la grande e pacifica manifestazione – un «nuovo medioriente» ma del tutto diverso da quello sognato dai «neocon» – ha fatto sapere di «seguire con attenzione» gli eventi in Libano, di essere «molto preoccupata» e di continuare a sostenere il governo Siniora.