L’assassinio del deputato e giornalista Gibran Tueni scuote il Libano: ieri a Beirut cinquantamila persone hanno partecipato ai suoi funerali mentre la città era paralizzata dallo sciopero generale, in un clima che ha ricordato le giornate della primavera scorsa con la mobilitazione anti-siriana di massa; ma al tempo stesso il governo rischia la crisi, dopo la autosospensione di cinque ministri sciiti, di Hezbollah e di Amal, che protestano appunto contro il clima anti-siriano e contro la decisione della maggioranza del gabinetto di sollecitare una “inchiesta internazionale”, come se non ci fosse già la commissione nominata dall’Onu e presieduta dal giudice tedesco Detlev Mehlis, della quale il Consiglio di sicurezza sembra orientato a prolungare il mandato per altri sei mesi. Si rinnova inoltre la richiesta delle dimissioni del presidente della Repubblica (“Vergogna Lahud, dimettiti”, gridava la folla ai funerali) mentre Damasco respinge nuovamente con energia le accuse rivolte nei suoi confronti. Un clima incandescente, insomma, alimentato anche a dichiarazioni infuocate come quella del leader druso Walid Jumblatt, il quale si è chiesto retoricamente se «qualcuno in questo Paese può dire “no” senza essere ucciso»; ma non mancano per fortuna voci più pacate e che esortano a smorzare i toni. Particolarmente significative in tal senso le parole pronunciate dal padre del deputato assassinato, l’ex-ministro ed ex delegato del Libano all’Onu Ghassan Tueni, il quale, rivolto alla folla che seguiva il feretro del figlio, ha detto: «Faccio appello in questa occasione non alla vendetta o all’odio, ma a seppellire con Gibran tutte le nostre inimicizie e a chiamare tutti i libanesi, musulmani e cristiani, a unirsi al servizio del grande Libano e della sua causa araba»; parole queste ultime che certamente non sono piaciute all’establishment politico maronita (i Tueni sono greco-ortodossi) che ha sempre cercato di contrapporre la “libanesità” all’“arabismo”. La grande folla dei partecipanti al funerale ha letteralmente inondato le strade di Beirut, sventolando bandiere libanesi e inalberando ritratti dell’ucciso, mentre le campane delle chiese suonavano a distesa. La bara, avvolta in una bandiera libanese, è stata trasportata a spalla fino alla Chiesa greco-ortodossa di Saint George e poi al cimitero di Beirut-est dove si trova la tomba di famiglia dei Tueni. Scuole, negozi e uffici erano chiusi in segno di lutto; una grande bandiera libanese sventolava davanti alla sede del giornale “An Nahar”, di cui Gibran Tueni (come già suo padre) era direttore. Il Parlamento si è riunito in sessione speciale per onorare la memoria del deputato ucciso, sul cui seggio era drappeggiato il vessillo nazionale. I parlamentari hanno osservato un minuto di silenzio, prima che i rappresentanti di tutti i gruppi prendessero la parola per ricordare Gibran Tueni. «Gloria a lui», ha detto il presidente del parlamento, il leader del movimento moderato sciita Amal filo-siriano Nabih Berri; a sua volta il capo del gruppo di Hezbollah, anch’esso legato alla Siriai, Mohammed Raad ha definito Gibran «un uomo dalla parola coraggiosa e dalla posizione senza compromessi». Questo clima di almeno apparente unità – se non altro nell’omaggio all’ucciso e nella condanna della catena di attentati mortali che ha scosso Beirut da febbraio – non basta tuttavia a impedire, come si è accennato, il rischio di una crisi politica e di governo, che nella fase attuale non farebbe altro che accrescere la tensione e inasprire i conflitti, con tutte le conseguenze del caso. Sullo sfondo c’è naturalmente la delicata e cruciale questione dell’inchiesta sull’assassinio dell’expremier Rafiq Hariri che ora si vorrebbe estendere alle successive uccisioni e in particolare a quest’ultima. La versione definitiva del rapporto del giudice tedesco Detlev Mehlis, consegnato tre giorni fa al segretario generale dell’Onu, conferma i sospetti nei confronti di esponenti dei servizi segreti siriani e libanesi per l’attentato del 14 febbraio contro Hariri; lo stesso Mehlis tuttavia ha osservato che
per provare (o tentar di provare) queste presunte responsabilità potrebbero essere necessari degli anni se Damasco non incrementa la sua collaborazione l’inchiesta. La Siria, va ricordato, respinge ogni accusa di coinvolgimento (almeno a livello di governo) e si è detta comunque disposta a far interrogare i suoi cittadini che risultassero coinvolti nell’indagine. E che questa vada ulteriormente approfondita lo conferma il fatto che Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno sottoposto al Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione che prolunga per altri sei mesi il mandato della commissione Mehlis e lo estende «per includere una investigazione sugli attacchi terroristici perpetrati in Libano dal 1° ottobre 2004», da quando cioè scampò a un attentato a Beirut il ministro druso Marwan Hamade, braccio destro di Jumblatt. I tempi dell’inchiesta insomma forse si allungano, ma la crisi politica potrebbe non seguire lo stesso ritmo.