Beckett fra arte della dissoluzione e condanna alla sparizione

Niente come un capolavoro è capace di mandare su di giri la bussola dell’interpretazione. E pochi, pochissimi capolavori letterari sono stati in grado, nella loro inafferrabilità, di fornire ai propri destinatari uno specchio in cui guardarsi, riconoscersi, rimanere sgomenti come ha fatto la Trilogia di Samuel Beckett. Ovvero Molloy, Malone muore, L’innominabile, i tre romanzi con cui il genio irlandese porta a compimento per la prima volta, e una volta per tutte, l’incredibile operazione che lo proietterà nel cuore del canone occidentale. Compie cioè il miracolo dei grandi: bruciare i ponti col passato per fare di quello stesso passato – bruciato, trasfigurato, distrutto, e dunque posseduto più che mai – lo strumento di una nuova fondazione.
Si sbarazza innanzitutto di James Joyce, il suo padre putativo (ciò che esplode nella Dublino il 16 giugno del 1904, implode nell’universo beckettiano a molto tempo di distanza, un tempo non quantificabile visto che, a differenza delle pendole impazzite di Ulysses o della Recherche, qui non esistono orologi). Ma il parricidio non gli basta. Dopo le prove generali di Primo amore, con la Trilogia Beckett abbandona anche la Grande Madre di ogni scrittore. La lingua. Via l’irlandese, al diavolo il Trinity College, Beckett comincia a scrivere in francese. Solo una lingua estranea, diversa da quella materna – più che uccisa in questo caso ridotta a un bizzarro stato vedovile, a sindrome da arto fantasma – può servire a uno dei suoi scopi supremi: tradurre in pagina scritta la condizione di estraneità e perdita di senso originario controbilanciato da un’indistruttibile sensazione di dissoluzione-in-vita che l’umanità cominciava a presentire all’indomani del secondo conflitto mondiale, e che Beckett le sbatté in faccia con un gesto che è l’esatto opposto del nichilismo. Qualcosa che è molto più vicino al comico kafkiano che alla sterilità del semplice atto negativo. Meglio: è una nana bianca. È, in definitiva, l’intera storia del pensiero occidentale racchiusa nella capocchia di uno spillo. O, se preferite, domiciliata in un merdaio crepuscolare, asfittico eppure paradossalmente senza confini prefissati – ma, scaraventato nel merdaio del ventesimo secolo, sporco, confuso, mezzo cieco, ciò che resta del pensiero umano (un pensiero che comprende le Scritture, i testi canonici del Medioevo, l’amatissimo Dante, Swift, fino al delirio paranoide della Guerra Fredda) nella Trilogia continua a tradursi in voce. Una voce che balbetta, si inceppa, delira, si smarrisce, fa tutto e il contrario di tutto ma è condannata (anzi, no: benedetta!) dalla circostanza di non potersi spegnere. Quale più grande atto di lucidità e umanità al tempo stesso diventa a questo punto concepibile?
Digerire una simile rivoluzione non deve essere stato facile. Il Nobel giungerà nel 1969 e Aspettando Godot conoscerà un buon numero di rifiuti prima di essere rappresentato. Ma adesso, che Samuel Beckett può essere pacificamente considerato un patrimonio dell’umanità grazie alla mai pacificata verità dei suoi testi, adesso ci si mette il nichilismo macabro della comunicazione nostrana a mettergli i bastoni tra le ruote. Entrate, entrate nel kitsch antiumanistico che sono diventate molte delle nostre librerie. Entrate e chiedete la Trilogia di Beckett. Il commesso o la commessa che vi è toccata in sorte controllerà sul terminale, farà scorrere il cursore lungo le linee verticali degli elenchi bibliografici per dirvi infine che niet: la Trilogia non c’è, non è presente in libreria e non si può neanche ordinare all’Einaudi (ultimo editore del libro e detentore dei relativi diritti). Insomma, solo la demenza dei nostri sistemi distributivi e editoriali può confondere così bene materiale e immaginario per concludere che l’arte della dissoluzione, di cui Beckett è maestro, debba «concretizzarsi» nella sparizione del suo capolavoro dagli scaffali delle librerie. Aggiungete che nemmeno il 2006 (anno del centenario beckettiano…) è servito a rimettere la Trilogia a disposizione dei lettori.
… Così, per togliermi la carie di una piccola vendetta, sono costretto a immaginarmele, queste librerie. Devo immaginarmele di notte, le vetrine illuminate, gli spazi deserti oppure occupati da pile e pile di bestsellers per acefali, mentre una voce risuona dallo spazio in cui dovrebbe esserci almeno una copia della Trilogia, una voce che per un gioco che ora voglio concedermi non è più quella di Beckett ma appartiene a un altro maestro del work in regress, una voce che dice, alla faccia dei cretini di ogni tempo e latitudine: «non siete voi che mi cacciate. Sono io, che vi condanno a rimanere».