E così l’«anomalia italiana» ha fatto il suo trionfale ingresso nella corte europea, seminando scompiglio tra cancellerie e salotti della grande politica. Non era ancora cominciato il «semestre», che già il volto truce di Silvio Berlusconi rimbalzava dalle copertine dei magazines ai teleschermi, rinfocolando furiose polemiche e trascinando il vecchio continente nell’ennesimo psicodramma. C’è da stupirsene? Dobbiamo credere alla tesi consolatoria dell’incidente, o non siamo piuttosto dinanzi a un gesto deliberato, coerente con uno stile politico e con un progetto? Da dieci anni, da quando è «sceso in campo», Berlusconi trasmette un segnale preciso: la politica è scontro, urto tra interessi, volontà, culture tra loro irriducibili. Quando il suo secondo governo stava per insediarsi, un suo celebre compagno d’arme enunciò la filosofia sottesa a questa concezione. «Non faremo prigionieri»: ora anche l’Europa è coinvolta in questa campagna, viene trasformata in un teatro di guerra politica. Ha ragione Massimo Cacciari, nell’intervista al manifesto di ieri. La favola della trappola in cui il premier italiano sarebbe inopinatamente caduto fa torto all’intelligenza del personaggio (rientra nella persistente tendenza a sottovalutarlo) e soprattutto è fuorviante. Preclude la via dell’analisi del progetto politico di Berlusconi e impedisce di cogliere la logica del suo agire, mostratosi in questi anni assai più coerente ed efficace di quello delle forze che cercano di opporglisi. Cacciari vede bene anche su un’altra questione, l’analogia tra Berlusconi e Bush sullo sfondo di profonde trasformazioni della relazione politica (tra fonti e destinatari della decisione; tra le articolazioni e i soggetti della sfera politico-istituzionale; tra gli Stati, sul piano internazionale) e della relazione sociale (dove è sempre più evidente la tendenza verso la destrutturazione dei corpi collettivi, l’erosione dei luoghi e dei soggetti deputati alla mediazione, la cancellazione degli strumenti di compensazione e degli ammortizzatori del conflitto).
Questa analogia merita di essere sviluppata attentamente in due direzioni: cercando di focalizzare gli aspetti essenziali della soggettività dei due capi di governo e proponendosi di individuare le fondamentali ripercussioni dei loro comportamenti sugli assetti istituzionali e sulla qualità delle relazioni che essi investono. Rispetto al primo punto, sarebbe sbagliato assolutizzare le differenze. Diversamente da Berlusconi, Bush nasce politico. Ma la sua famiglia è un clan, in tutti i sensi. Il potere scende per i rami parentali e si irradia su una schiera di collaboratori legati al capofamiglia da vincoli di fedeltà personale. Come in un’azienda della qualità totale. E si fonda su corpose cointeressenze nel business in comparti chiave – dal petrolio al militare-industriale – strettamente connessi alla decisione politica. Come hanno dimostrato gli scandali nel settore della new economy e le guerre per il petrolio tra Iraq e Afghanistan, la questione del conflitto di interessi non è meno cruciale e non produce effetti meno dirompenti negli Stati Uniti che nel nostro paese.
Forti l’uno del potere economico e mediatico costruito all’ombra di un padrino politico, l’altro del potere politico ed economico accumulato dal padre e trasfuso nella lobby di famiglia, Berlusconi e Bush incarnano poli di potenza privata immediatamente tradotta – complice un clima generale segnato dal deperimento della sfera pubblica e dal drammatico radicalizzarsi delle logiche di dominio – nel cuore della politica. Da questa costituzione particolaristica discende la propensione schmittiana a concepire le relazioni sociali e politiche in termini guerreschi. La società (e il mondo) si dividono in fronti immediatamente e irriducibilmente contrapposti. La politica cambia finalità e funzioni. Disperde i caratteri della partecipazione e persino le logiche della rappresentanza, per ridursi a una relazione essenzialmente asimmetrica di subordinazione, di controllo e di sfruttamento (sia della forza-lavoro, sia della ricchezza sociale: onde la regressione delle società a mercati di consumo di merci materiali e immateriali ad elevato plusvalore economico e ideologico).
La mediazione, il compromesso, la sintesi tra istanze differenti, la ricerca di soluzioni inclusive sono accantonate come inservibili anticaglie. La coesione sociale non è considerata più un valore, tanto meno un obiettivo. Le gerarchie si irrigidiscono, si blindano le frontiere (non soltanto quelle che separano stati e aree geopolitiche, anche quelle che solcano i corpi civili), ci si affida alle tecniche della sorveglianza e dell’esclusione. La distanza tra il centro della sovranità e il suo territorio aumenta, tende a farsi incolmabile. Gran parte della società assiste inerte (o ignara) a uno spettacolo che non decifra, diserta in massa le scadenze elettorali, accetta che – formalmente ridotta ad «amministrazione» – la politica riservi decisioni cruciali a un perimetro sempre più ristretto di attori sottratti al controllo. La grande questione democratica torna ad essere il segreto, architrave dell’antico regime. E al segreto si accompagna – non casualmente – la crescente capacità del potere di frugare, schedare e sorvegliare i corpi sociali (anche di altri paesi) in ogni loro articolazione.
Di qui il discorso si dovrebbe allargare alle cause o, se non altro, ai contesti di sfondo di questi processi degenerativi. Bush e Berlusconi sono gli uomini giusti al momento giusto. Come non è un caso privo di ragione la contestualità dei loro trionfi, così non sarebbe sensato sbarazzarsi del quadro storico in cui questi si compiono. Lo scenario del nuovo populismo autoritario che oggi minaccia i sistemi democratici è il caos mondiale che vede la luce nel 1991 a coronamento della rivoluzione conservatrice thatcheriano-reaganiana, e che vive dell’impasto tra neoliberismo, crisi di sovrapproduzione, migrazioni e schiavitù di massa, prepotente ritorno della guerra nell’agenda politica internazionale. Il tramonto del bipolarismo ha sottratto ai paesi occidentali un formidabile impulso verso la civilizzazione del capitalismo e ha acuito oltremisura il problema del controllo delle risorse energetiche, mentre già si profila un’emergenza idrica di sconvolgente portata. La crisi economica colloca le grandi aree monetarie su una rotta di collisione ed espelle quote crescenti di società dai processi di riproduzione, determinando l’apertura di una forbice drammatica tra masse demografiche e corpi civili, tra popolazione e cittadinanza. La crisi dei riferimenti tradizionali genera ansie, spinge al radicamento neo-etnico, all’odio xenofobo e all’invocazione di personalità carismatiche. La crisi delle forme classiche della rappresentanza e il processo di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica accrescono a dismisura i costi della politica e premiano virtù di dubbia qualità: la ricchezza, la capacità di arricchirsi, il potere di intimidazione e di manipolazione mediatica.
Non è un discorso che si possa sviluppare in questa sede. Ma una cosa merita di essere posta in rilievo. Comprendere i caratteri del contesto politico-storico in cui si affermano personalità politiche come l’attuale presidente degli Stati Uniti e il premier italiano in carica non è solo un’esigenza intellettuale, è un’urgenza politica. Nella tendenziale sottovalutazione di questo nesso sta il limite di un certo furore anti-berlusconiano che rischia, a dispetto delle più condivisibili intenzioni critiche, di rivelarsi impotente perché vede il sintomo ma lo identifica impropriamente con la malattia. Dinanzi agli estremi cui oggi assistiamo (leggi contro i migranti che autorizzano detenzioni di massa in assenza di reati penali, leggi «anti-terrorismo» che consentono lunghe detenzioni senza accusa, processi segreti o senza difesa, torture, sparizioni e condanne capitali senza processi) occorre porsi una questione cruciale. Chiedersi di che cosa simili estremi siano conseguenza, di quali mutamenti profondi nella relazione sociale e politica. Se non sapremo rispondere presto e correttamente a questi interrogativi, non saremo in grado nemmeno di comprendere i caratteri di questo tempo, che non è solo di crisi della democrazia, ma forse anche di una transizione – di una nuova «grande trasformazione» – verso un ordine delle società e del mondo che resta ancora in buona misura imprevedibile.