BARGHOUTI COME MANDELA: ALLA FINE VINCERA’ LA GIUSTIZIA

In questi giorni riprende il processo a Marwan Bargouti, il “Nelson Mandela” della Palestina, secondo una felice definizione data da sua moglie Fadua a Johannesburg. In effetti la prigionia di questo combattente per la causa del suo popolo assomiglia molto a quella del grande leader della lotta contro l’apartheid. Il processo rischia di trasformarsi in un boomerang micidiale per l’immagine di Tel Aviv, perché rappresenta in tutta evidenza la volontà esplicita di annichilire un popolo e la sua capacità di autodeterminare e di decidere il proprio futuro. Catturato dai soldati israeliani dopo essere scampato a diversi attentati, lui, cittadino palestinese, oltre che autorevole dirigente politico e militare, viene processato di fronte a un tribunale di Tel Aviv sulla base delle leggi di uno Stato occupante.
La situazione, sul piano del diritto internazionale, è assurda. La prima udienza del processo, a metà agosto, ha dato una prima dimostrazione di come la prigionia di Barghouti stia diventando il simbolo del calvario del popolo palestinese. L’immagine di questo uomo indomito, non piegato dal lungo isolamento, che, quasi affogato nella divisa marroncina del servizio carcerario israeliano agita i pugni ammanettati e urla la sua indignazione in arabo, inglese ed ebraico ha fatto il giro del mondo. I suoi concetti, tradotti e ripetuti dai mass media, sono semplici e chiari «Solo la pace garantirà la sicurezza a israeliani e palestinesi, il popolo israeliano paga un duro prezzo per il persistere dell’occupazione militare.
Tutto il mondo sa che Marwan Barghouti è un «uomo di pace» e l’unica strada possibile è quella di «mettere fine all’occupazione», condizione essenziale e primaria per «garantire la sicurezza». Non sono slogan, ma una convinzione radicata tra il suo popolo e nel suo paese. Pochi mesi prima, in un incontro con i pacifisti aveva spiegato il suo punto di vista sulla situazione che si stava delineando sostenendo che l’Intifada era iniziata per la frustrazione vissuta dal suo popolo nel corso della gestione del processo di pace. «Non credete a chi ci dipinge come una massa di feroci terroristi, questa è un’intifada per la pace. Nella storia hanno vissuto insieme cristiani, ebrei, ortodossi, mussulmani. Nel 1947 era stato stabilito che il 52% del territorio andava agli israeliani, ma nel 1948 gli israeliani hanno occupato il 50% del territorio che andava ai palestinesi. L’Intifada è iniziata come un’azione non violenta. Ora Israele sta mettendo la Palestina con le spalle al muro. In questo caso dopo 82 morti e 1000 feriti palestinesi è stato ucciso il primo israeliano. Non siamo contenti e non andrò a dormire felice per la morte di giovani israeliani». E aveva poi aggiunto di sperare che «l’Europa abbia un ruolo più attivo e autonomo» accusando anche gli altri paesi arabi di sostanziale indifferenza di fronte al dramma palestinese.
Un uomo di pace, dunque, e non soltanto in carcere, ma gli Israeliani non la pensano così. L’hanno arrestato con la segreta speranza di fiaccarne la resistenza e la determinazione. Che questa sia la strategia si è capito fin dalla prima udienza tutta imperniata sulla procedura. Davanti al giudice Zvi Gurfinkel l’avvocato dell’accusa, signora Dvora Chen, ha elencato i capi di imputazione. Israele accusa Barghouti di omicidio, tentato omicidio, cospirazione per commettere un omicidio e di attività terroristiche. Secondo l’accusa avrebbe infatti guidato le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, gruppo armato legato ad Al Fatah e autore di numerosi attentati. Nei capi di imputazione sono citati 37 attacchi in cui sono state uccise 26 persone e ne sono state ferite molte altre. Per una curiosa scelta procedurale a lui non è stato consentito di esprimersi. Non ha potuto nemmeno dichiararsi colpevole o innocente. Ha fatto però sapere che gli inquirenti lo hanno «costretto a sedere sulla stessa maledetta sedia per ore, giorni e mesi», di essere stato privato del sonno e di aver passato 95 giorni in cella di rigore. Il suo atteggiamento non è però, quello di una vittima, ma di un consapevole protagonista di una dura battaglia. «Se queste umiliazioni e questo comportamento mostruoso sono stati inflitti a me che pure sono un dirigente politico e deputato mi chiedo cosa mai avranno subito gli altri membri del mio popolo».
In questi giorni in cui il processo ricomincia Barghouti non può essere lasciato solo. Quella che si combatte nel tribunale di Tel Aviv è una battaglia per i diritti del popolo palestinese e parla al mondo. Non possiamo pensare che non ci riguardi. Occorre sviluppare una mobilitazione diffusa di solidarietà che ne accompagni tutte le vicende processuali e oltre. Come è stato per Mandela, alla fine si può vincere.