Barca: anche le coop hanno da tempo i loro boiardi

Annotazione del 14 febbraio ’98, «ho seguito attraverso la tv e i giornali la cerimonia di decollo della “Cosa 2″», anche il Pds sta cambiando nome e la sua prosa è già uno sguardo dall’esterno, «non nascondo che ho sofferto per lo sforzo di tanti dirigenti dell’ex Pci di far dimenticare il loro “errore di gioventù” e omologarsi agli altri, anche nel vestire e nell’oculata scelta dei ristoranti, dei salotti, dei sarti, delle barche». A quel punto aveva già rinunciato a rinnovare la sua tessera, anche se non se n’erano accorti. E sì che Luciano Barca, già nella segreteria di Togliatti nonché direttore dell’ Unità , era iscritto dal ’45, l’anno dopo si faceva le ossa nel quotidiano del partito «e il mio primo pezzo importante, pensi un po’, fu l’assemblea della Banca d’Italia», ridacchia, «sa, allora il governatore era Luigi Einaudi…». Ex ufficiale di Marina, non veniva «da lontano» e Giorgio Amendola lo prendeva in giro per la sua ascesa alla segreteria, nel ’60, «tu che non sei neanche vescovo!». Ma Barca godeva della fiducia di Togliatti e ora bisogna sentirlo mentre racconta del Migliore che chiedeva un ritocco allo stipendio, «arrivò in segreteria e disse: “Insomma, guardate, il 67 per cento di prelievo sugli stipendi dei parlamentari mi pare un po’ troppo, se potessimo ridurlo…”. Si rende conto? Togliatti che sottopone la cosa ai suoi! A poco a poco fu ridotto, se tua moglie lavorava e vivevi a Roma il partito si teneva il 57 per cento, adesso si figuri…».
I tempi cambiano, anche nel partito, ma lui se n’era accorto da tempo. Basta leggere i tre volumi delle Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubbettino), più di mille pagine di diario nelle quali ha raccontato la sua esperienza fino a quando la sua sezione di via Sebino realizzò che non si era più iscritto e lui, 10 luglio ’98, scrisse: «Il mercato alla bicamerale presieduta da D’Alema tra giustizia e riforme istituzionali non mi ha offeso solo politicamente. E non solo politicamente ma anche moralmente dissento dal sistema dello staff personale col quale D’Alema governa il partito al di fuori di ogni organismo statutario». Ormai siamo alla fine, con tanti saluti, il terzo volume si chiude con una lettera desolata di D’Alema che gli chiede di ripensarci, «non l’ho più rivisto».
Oggi ha 85 anni e vive nello stesso appartamento del quartiere Salario che aveva preso papà, «allora si era quasi fuori Roma, il tram si fermava a un chilometro da qui, erano le case cooperative dell’Ircis che poi Mussolini nazionalizzò». Ecco, appunto, le cooperative. Lui nel ’90 aveva creato la onlus «Etica ed Economia» anche se il nome, spiega, si riferiva più che altro a un saggio sul welfare di Amartya Sen. Com’è che adesso la questione morale di Berlinguer è diventata patrimonio di Parisi? «Beh, non so se sia un suo patrimonio», sorride, «in realtà non penso neppure che si possa segnare come discrimine la morte di Enrico. Forse tutto è iniziato negli anni Settanta, quando i più giovani ci dicevano che eravamo troppo frati ed era ora che uscissimo dai conventi». Anche nelle cooperative stava succedendo qualcosa, «in Emilia si abbattevano gli alberi di pesche bianche, “non ce le compra nessuno, a chi le vendiamo?”, alcune coop che s’erano messe insieme per le colture intensive scoprivano d’improvviso che comprare e gestire i Bot rendeva più che lavorare la terra».
Nella seconda metà degli anni Ottanta, da presidente della commissione per il Mezzogiorno, il comunista Barca polemizzò «con alcuni boiardi della cooperazione». La voce si arrochisce: «Si mandava al Sud il capo, l’ingegnere, il capomastro, e il resto veniva affidato con appalti e subappalti, come un’azienda qualsiasi. E allora che differenza c’era tra le coop e la Fiat?». Certo non si può generalizzare, «alcune hanno mantenuto le loro caratteristiche», però l’essenziale è semplice, vedi Unipol: «Mi domando: qual era il rapporto tra Unipol e i soci di base? Cosa mi dà di diverso rispetto a un’altra compagnia?». Forse il problema è sempre lo stesso, «l’assoluta mancanza di democrazia interna» che gli ha fatto lasciare il partito. Consorte e il vice Sacchetti, indagati, devono dimettersi? «Non esiste obbligo, loro sanno come stanno le cose e spetta alla loro coscienza decidere». Pausa, risatina: «Non so se sia mania di grandezza o un sogno utopistico delle origini: la Bnl è nata come società di credito cooperativo, sa?».
In ogni caso, è questione di stile. Sarà stato il cambio di generazione, «veniva avanti una classe dirigente che non aveva sofferto le asprezze del dopoguerra», la prima macchina a quarant’anni, «il rapido Roma-Ancona sul quale il Guardasigilli Oronzo Reale pranzava con i due panini preparati dalla moglie, e sullo stesso treno c’era pure un industriale come Merloni». Non è tanto questione di persone, «ho incontrato Fassino cinque mesi fa, conosco da trent’anni e ho grande stima di Vannino Chiti. Non è questo o quello, è che ai tempi tutti si sarebbero vergognati di lussi e comportamenti non adatti a un parlamentare comunista». I soldi, le barche? «Con Pajetta, al massimo della festa, si andava a mangiare alla Carbonara di Campo de’ Fiori».