L’odore terribile della cancrena di ferite aperte mischiato a quello delle feci, lasciati a marcire in una specie di cunicolo senza luce, ammassati l’uno sull’altro, le facce grigie, gli occhi spalancati che spuntano dal buio e dalle barbe incolte. Difficile riconoscere in loro tratti umani e forse umani non sono. Sono i nemici, i talebani, che importa se hanno vent’anni o sedici, e se moriranno marcendo nella loro stessa merda.
Questo è lo spettacolo che si presentò al team di Emergency nel carcere di Shebergan quando riuscì ad ottenere dall’Alleanza del Nord il permesso di accedervi.
Emergency, oltre a curare i feriti civili della guerra (il 90 per cento delle vittime sono civili) ha avviato dal 2001 un programma di assistenza nelle prigioni afgane di Shebergan, Duab, Kabul, Lashkargah. Oltre a visite periodiche per fornire assistenza sanitaria ai prigionieri, sono stati realizzati interventi di ristrutturazione dei servizi igienici e allestite cliniche e ambulatori. I prigionieri bisognosi di cure medico-chirurgiche vengono trasferiti nei centri chirurgici di Emergency più vicini.
Su la Repubblica di mercoledì 31 maggio, Guido Rampoldi scrive che «nell’ambiguità del Bene l’ospedale di Emergency occupa un posto particolare, trattandosi d’un ospedale per “feriti di guerra”, dunque anche per militari Taliban… aprire un centro sanitario che rimette in sesto i combattenti d’un regime spaventoso, così da rimandarli al fronte, a noi non pare un grande affare per la pace e per l’umanità. Saremo cinici ma ci sembrano più umanitarie le bombe e le pallottole…».
Si potrebbe pensare che non vale la pena di soffermarsi su affermazioni così aberranti. Che cosa suggerisce Guido Rampoldi, di non fare prigionieri? O nel caso di finirli con un colpo alla nuca? Ma questi deliri non sono le sparate di un naziskin di periferia con gli amici al bar, sono scritti nero su bianco su uno dei più grandi e autorevoli quotidiani nazionali, sono «opinioni» e fanno «opinione».
Sono il segnale allarmante di quanto lo spirito della guerra è penetrato nelle nostre «civili» coscienze e di quanto le sta imbarbarendo.
I valori minimi di umanità che imporrebbero almeno la pietà per i prigionieri sono stati di fatto bruciati a Baghdad, con le torture inflitte ai prigionieri di Abu Grahib, e negli altri carceri segreti sparsi per il mondo, sono finiti nelle gabbie di Guantanamo o negli sgozzamenti in presa diretta perpetrati dai cosiddetti resistenti. Ed ora con parole come quelle di Rampoldi se ne elogia e se ne auspica il ripudio completo, si denuncia come un crimine il curare un ferito e come un tradimento la pietà umana.
Uscire subito da questa terrificante logica di violenza è sempre più urgente. Non solo per salvare le vite dei nostri soldati in Iraq e in Afghanistan e quelle delle persone che da loro potrebbero essere uccise e ferite, ma anche per salvare la nostra stessa civiltà, o quel che ne resta, dalla prospettiva di danzare sui cadaveri dei nemici uccisi o appendersene gli scalpi alla cintura.
da PeaceReporter