Ameno di cataclismi elettorali e di clamorosi errori dei sondaggi, domani Michelle Bachelet, la candidata socialista della Concertacion por la Democracia, sarà eletta presidente del Cile. La prima donna presidente. I dati delle ultime inchieste pre-elettorali, a tre giorni dal voto, assegnano alla Bachelet il 45% dei voti contro il 40% a Sebastian Piñera, il plurimiliardario imprenditore che è il candidato della destra morbida e dura. Contando i soli voti validi, Bachelet domenica sera dovrebbe arrivare al 53% contro il 47% di Piñera. Se così fosse Bachelet, che al primo turno dell’11 dicembre si era fermata a un deludente 45.9%, qualcosa meno delle previsioni e parecchio meno della somma dei voti dei due candidati della destra (Piñera e Lavin insieme avevano il 48.6%), andrebbe al palazzo della Moneda con un risultato migliore di quello del suo elogiatissimo predecessore, il socialista Ricardo Lagos che nel ballottaggio del dicembre `99 sconfisse Lavin con uno striminzito 51.3% contro il 48.7%. Sarebbe un buon viatico per la candidata che ha dovuto superare molti ostacoli nella sua corsa verso la Moneda. Prima quelli dentro la Concertacion, dove nonostante il suo buon disimpegno come titolare di ministeri importanti quali la Sanità e la Difesa, era vista come un out-sider della politica di caratura inferiore a un’altra «presidenziabile» della coalizione – la democristiana Soledad Alvear, ministro degli esteri. Poi quelli della destra che fino all’ultimo ha battuto apertamente sulla sua presunta «impreparazione» per la presidenza e più subliminalmente sul suo essere donna contando di intercettare così le pulsioni profonde di una società molto machista.
Invece la seconda manche sia di Bachelet sia del centro-sinistra è stata molto migliore della prima e al contrario quella dei due spezzoni della destra è stata pessima. In questo mese supplementare Michelle si è liberata dal sequestro politico dei «commissari» della Concertacion e ha recuperato le doti che ne avevano fatto la candidata naturale e vincente per garantire alla coalizione democristiani-socialisti il quarto governo consecutivo dalla fine nel `90 del regime pinochettista: simpatia, sensibilità sociale, storia personale (il padre generale ucciso dai golpisti di Pinochet, essere madre senza un marito di due figli, agnostica in un paese bigotto), solidità umana, una certa aira naïve che la fa vedere in qualche misura diversa dai professionisti della politica. La Concertacion dal canto suo, spaventata dalla prospettiva di dover sloggiare dalla Moneda dopo 16 anni filati, si è ricompattata e, accantonando per l’occasione divisioni e gelosie interne fra socialisti e democristiani, ha lavorato sodo e all’unisono con e per la candidata.
Una mano è venuta dai comunisti, le vere vittime dell’interminabile transizione democratica che grazie a un perverso sistema elettorale li ha esclusi da qualsiasi rappresentanza parlamentare. L’11 dicembre la coalizione di sinistra Juntos Podemos aveva raccolto il 5.4% del voto presidenziale sul suo candidato, l’«umanista» Tomas Hirsch, ma il 7.4% nel voto parlamentare che in un sistema proporzionale sarebbero valsi 9 deputati su 120 e 3 senatori su 38. Voti che si annunciavano come decisivi nel ballottaggio. Hirsch e una parte del Juntos Podemos erano per il voto nullo domani, ma i comunisti, dopo un acceso dibattito interno, hanno annunciato già alla fine di dicembre che avrebbero votato per Michelle. Le 5 «condizioni politiche» a cui avevano condizionato il loro voto favorevole (la prima ovviamente l’abrogazione del sistema binominale, poi le leggi sul lavoro, la riforma della disastrosa privatizzazione delle pensioni, il riconoscimento costituzionale dei «popoli originari», l’ambiente e la giustizia per i crimini del pinochettismo) sono state lasciate cadere nel vuoto. Non c’è stato un accordo formale ma solo uno «scambio di lettere» e i comunisti – dopo aver regalato gratis il loro voto decisivo a Lagos nel ’99 – si sono dovuti accontentare dei ripetuti impegni di Bachelet per l’abbandono del binominale e sperare nella sua sensibilità sociale.
Un altro fattore decisivo della campagna è stato l’intervento massiccio del presidente Lagos che si appresta a lasciare la Moneda con gli onori del trionfo (soprattutto degli imprenditori come ha voluto sottolineare la sfrontata demagogia del miliardario Piñera, e non «degli umili») e con un indice di gradimento del 75%. Lagos ha giocato pesante: Piñera diceva di essere d’accordo a cambiare il binominale? E Lagos ha mandato subito un progetto di legge al Congresso per un nuovo sistema elettorale. Ma l’Udi di Joaquin Lavin ha detto no. Piñera va a Temuco a dire ai mapuche di essere favorevole alla riforma costituzionale per il riconoscimento degli indigeni (i mapuche del sud, gli aymara del nord e i rapa-nui dell’isola di Pasqua sono l’8% dei 15 milioni di cileni)? E Lagos manda in Congresso un progetto di riforma costituzionale, Piñera invita le due destre in parlamento, la sua Rn e la Udi di Lavin, a votare a favore e invece la Udi si astiene e fa abortire il progetto, mostrando la «ingonvernabilità» di un Cile con un presidente di destra.
La destra in questo secondo round è stata un disastro. Piñera, aggressivo, machista e nervoso, ha perso con verdetto unanime l’unico dibattito televisivo con Michelle; ha mostrato l’inconciliabilità fra la sua anima moderata e «moderna» – Renovacion Nacional – e la sua anima dura e radicale – la Union Democrata Independiente – che sembra averlo abbandonato al suo destino.
Giovedì sera all’atto finale della campagna di Michelle, la Alameda di Santiago straripava di oltre 200 mila persone, nella stessa ora nella Plaza de… la Victoria di Valparaiso, per Piñera c’erano 8 mila anime perse.
A meno di clamorose sorprese, domani Michelle Bachelet sarà presidente del Cile. Se per continuare «ad amministrare il continuismo neo-liberista imposto dalla dittatura» o per fare qualcosa di meglio, è da vedere.