L’Unione europea vive un momento di profonda viltà. E la cosa non dipende dalla crisi provocata o meglio, resa evidente, dal no francese e olandese alla sua carta costitutiva. Il fatto è che l’Europa sta venendo meno al principio che la sua «capacità di assimilare nuovi membri» deve accompagnarsi allo «slancio dell’integrazione europea». In questi giorni, con la pessima prova data da Bruxelles con il rinvio di cinque mesi – ma tutti hanno capito al 2008 – dell’ingresso di Romania e Bulgaria, appare ormai chiaro che l’Europa rinuncia nei fatti al famoso documento di Salonicco del 2003 che manteneva alzata la sbarra dell’apertura condizionando l’adesione ai due cosiddetti “criteri stabiliti”: democrazia e economia di mercato. Ora se ne aggiunge nella pratica un terzo, annunciato dai ministri degli esteri riuniti recentemente a Salisburgo: la capacità di assimilazione. Cioè la reale volontà o meno dei governi dell’Unione europea.
Dopo il “ni” a Romania e Bulgaria l’europarlamentare Daniel Cohn-Bendit ha commentato, guardando la geografia che vede i due paesi leader dell’area balcanica: «E’ una scelta il cui costo verrà pagato dalle popolazioni dei Balcani». Niente di più giusto. Infatti se per Romania e Bulgaria il mancato ingresso a gennaio 2007 vorrà dire un loro maggiore avvicinamento agli Stati uniti, con i quali del resto sono stati solerti volenterosi nella guerra all’Iraq, per quello che riguarda i Balcani si apre un vero baratro d’incertezza. Dopo tante promesse, ha ricordato la Commissione internazionale sui Balcani presieduta da Giuliano Amato, l’Unione europea appare ai vari paesi frantumati dopo la guerra «indecisa e impreparata a offrire prospettive credibili di adesione». E’ una frase paludata che esprime stupore e che a mala pena nasconde una realtà: quella che vede l’Unione europea impegnata ormai direttamente o ancora attraverso la Nato a gestire i protettorati militari, dal costo onerosissimo e ormai insostenibile e dal malcerto futuro politico. Senza una prospettiva a termine, la dimensione è diventata quella coloniale. Di fronte alla quale le diverse realtà del vulcano mai spento dei Balcani potrebbero essere tentate da nuove avventure, visto il disastro a cui sono ridotte.
Che fine hanno fatto le promesse alla Bosnia con le sue corrotte leadership nazionaliste (musulmana, croata e serba), inzeppate di finanziamenti occidentali a pioggia, sempre incapace a risolvere il nodo dello stato centrale e tentata invece di confermare le separazioni etniche già garantite dalla pace di carta di Dayton? Che fine stanno facendo le promesse a Belgrado di una svelta integrazione se si catturano gli iper-ricercati criminali di guerra Mladic e Karadzic (sempre in assenza di giustizia condivisa, quanto a crimini della Nato non puniti per i raid del 1999 e ai criminali riconoscimenti delle indipendenze autoproclamate su base etnica nel 1991 da parte dell’Unione europea)? Che fine faranno le sciagurate promesse fatte agli albanesi del Kosovo di imporre l’indipendenza alla Serbia, nel rispetto delle minoranze serbe sottoposte a pulizia etnica, ma dentro la concreta prospettiva di una partecipazione all’Unione europea? E, infatti, il mediatore dell’Onu Martii Ahtisaari annuncia che «i negoziati proseguono nel 2007». E che figura fa l’Unione europea in queste ore in Montenegro dove un inaffidabile premier che corrisponde al nome di Milo Djukanovic, incriminato in Italia per contrabbando e mafia, ma accreditato dalla Nato, chiederà domenica prossima in un referendum la secessione dalla Serbia perché «così si avvicina l’ingresso nell’Unione europea»?
Siamo alla farsa che nei Balcani può inevitabilmente degenerare in dramma. Perché dimenticavamo che, invece, entra subito nell’area dell’Euro la Slovenia – la stessa per la quale Peter Handke si chiedeva quindici anni fa, a ragione, se era legittimo che l’Unione europea riconoscesse l’indipendenza statuale autoproclamata sulla base della «slovenicità» e che quindi è all’origine della dissoluzione eterodiretta della Federazione Jugoslava. Così ora i Balcani potranno comprare le armi della prossima guerra invece che in marchi direttamente in euro. Davvero, niente di nuovo sul fronte occidentale.