Balcani, infinito dopoguerra

Il novembre 2005 è l’anniversario di due verifiche: gli accordi di Dayton `95 sulla Bosnia e quelli di Kumanovo del `99 sul Kosovo. La Bosnia vedrà imporsi la tripartizione etnica, il Kosovo deve diventare, contro il parere di Belgrado, uno stato indipendente monoetnico

Novembre è il mese di due anniversari dell’«altro millennio» non rituali: la verifica, dieci anni dopo, della pace di Dayton (la «pace di carta» ratificata da Bill Clinton e dai tre signori della guerra, Milosevic, Tudjman e Izetbegovic), e quella degli accordi di Kumanovo che nel giugno del 1999 posero fine alla «guerra umanitaria» di raid aerei che per due mesi e mezzo devastarono quel poco che rimaneva della ex Jugoslavia. E’ il tema dell’ultimo, più che mai puntuale, quaderno speciale della rivista di geopolitica Limes, «I Balcani non sono lontani», diretta da Lucio Caracciolo (in edicola e in libreria a 8 euro). Ma con alcune premesse necessarie. La Nato nei Balcani non ha portato la pace ma lo status di protettorati militari infiniti ai quali si associano le promesse istituzionali di «ingresso» nell’Unione europea ora poi che l’Ue stessa è una promessa istituzionale. E che la ricerca della verità è solo l’esercizio della giustizia dei vincitori, ancora con crimini di serie A e di serie B e un uso del Tribunale dell’Aja come fosse la pelle di zigrino – vedi il voltafaccia recente del procuratore Carla Del Ponte che nell’arco di 24 ore ha cambiato parere sull’esistenza o meno della collaborazione da parte delle autorità della Croazia in merito alla cattura del generale-criminale Ante Gotovina. Pure se emergono novità sull’intera complessa vicenda dell’Aja, come nel caso dell’incriminazione dell’ex «premier» del Kosovo, Ramush Haradinaj, fortemente sponsorizzato da Ibrahim Rugova, e dell’ex comandante in capo della difesa di Sarajevo assediata, il generale musulmano-bosniaco Rasim Delic, entrambi per stragi di massa. Due fatti accaduti perché nelle indagini effettive sono emerse responsabilità pelose difficilmente nascondibili ormai – non più solo lo spettro del massacro di Srbrenica, ma anche quello di Kazany nella Sarajavo assediata. E che però gettano una luce «nuova» sugli accadimenti che proporrebbe quello che proprio non si vuole: una commissione di verità e giustizia, com’è già stato per il Sudafrica del post-apartheid, condivisa da tutti i popoli straziati dall’ultima guerra balcanica, fratricida e interetnica. Alla quale è bene ricordare, l’Occidente tutto e l’Europa in particolare hanno preso parte attiva da subito, finanziando i partititi «democratici», in realtà ipernazionalisti, già dal 1989, legittimando le secessioni armate a danno delle minoranze interne, armando le milizie etniche che si costituivano come nuovi eserciti. Altro che rituale e menzognera denuncia sul presunto «ritardo» nell’intervenire per fermare i contendenti – è da questa menzogna che si è costruito l’impossibile agire dell’Onu e il facile scaricabarile poi sulle sue impotenze, immediatamente quanto impropriamente surrogate dall’armatissima Alleanza atlantica.

L’ingegneria dei «corridoi»

La scena attuale, tipica ahimé della storia dei Balcani, il grance buco nero del nostro Oriente, dunque è quella di residui stati-appendice, come la Slovenia, e vassalli dell’Ue o in via di vassallaggio come la Croazia e la Serbia-Montenegro; con tre protettorati militari garantiti da un vasto schieramento di forze militari oltreché da un fitto buio mediatico, in Bosnia-Erzegovina, in Kosovo e, più defilato e meno visibile, in Macedonia culla nel nord dell’irredentismo albanese dell’area, che rischia ad ogni crisi politica interna di riprecipitare nella guerra civile esplosa alla «fine» della guerra in Kosovo e durata fino al 2002, solo tre anni fa. Protettorati militari per i quali l’Occidente tutto e l’Europa, come al solito con sguardo a dir poso strabico, avviano due paradossali soluzioni contrapposte: per la Bosnia Erzegovina impongono la multietnicità a tutti i costi, per il Kosovo sono pronti a riconoscere una indipendenza monoetnica anche grazie al fatto che l’occupazione Nato della provincia serba – come richiesto dagli accordi di pace di Kumanovo che rispettano ancora l’autorità di Belgrado sulla regione – è proseguita per sei anni una contropulizia etnica che ha cacciato tutti i non albanesi e quasi sradicato le tracce della storia – 150 monasteri ortodossi rasi al suolo e incendiati – dei serbi che considerano quella terra la culla della loro civiltà.

Il numero di Limes prende le mosse da un originale contributo di Margherita Paolini che disegna una fitta rete strategica di corridoi attrezzati e varianti di questi, che dovrà far comunicare i Balcani fra loro e la realtà adriatica del sud-est europeo con connessioni dell’Europa, quella continentale e quella del Baltico affacciata su un altro mare. Quel che però non è chiaro è come si possa passare da una calma piatta che cova braci diffuse, ad una avveniristica ingegneria istituzionale di corridoi di comunicazione, quando ancora sui confini e sugli accessi al mare esplodono nuove contese per esempio tra le «moderne» Slovenia (già nella Ue) e Croazia (in procinto d’entrare) – o quelle mai sopite di Grecia e Bulgaria sul vicino destino della Macedonia.

Ultime contese sugli ultimi confini

Quando l’indipendenza del Montenegro governato da un primo ministro, Milo Djukanovic, incriminato quest’anno per mafia e contrabbando in Italia, viene ancora usato dall’Occidente come arma di ricatto verso Belgrado in merito alle trattative sullo status finale del Kosovo. E quando, ma è la stessa Limes a dircelo nel saggio «Le strade del crimine non hanno confini» di Rosario Aitala e Paolo Sartori, l’unico vero «corridoio» comunicante, nonché ipervigilato dalle truppe occidentali, di questo infinito dopoguerra è quello del crimine organizzato, con le sue rotte transnazionali di traffici d’armi, di esseri umani e di droga, con un inedito collegamento tra mafie locali interetniche – è l’unico livello interetnico residuo dei Balcani – che la dicono lunga sui risultati del coinvolgimento occidentale nelle diverse guerre balcaniche degli ultimi dieci anni. Risultati più che fallimentari sui quali la sinistra che aspira a governare e che come centrosinistra fu responsabile dal governo del paese della guerra «umanitaria» del 1999, non solo non riflette ma addirittura rivendica.

Così arrivano da Limes tutte le risposte ufficiali come quella del ministro degli esteri serbomontenegrino Vuk Draskovic che propone per il Kosovo la formula, sulla quale anche l’Italia sembra orientata, «più autonomia, meno indipendenza»; mentre il premier di Pristina Bajram Kosumi insiste sulla «indipendente nazione kosovara rispettosa delle minoranze» (che nel frattempo sono state tutte cacciate via). Ma Limes pone anche domande pelose, incomplete, inconsapevoli ma sempre dirette e giuste. Inconsapevoli come quelle di Federico Eichberg che, preoccupato dei reinneschi di odio tipici della storia balcanica che non passa mai – ma dove passa veramente ora che i processi di balcanizzazione si sono estesi ad aree geopolitiche impensabili? – sfotte al tal punto il pericoloso atavico vittimismo dei serbi. Così tanto da non accorgersi che, solo qualche pagina più avanti, la stessa rivista Limes teme l’alimentarsi proprio di questo vittimismo a fronte della decisione, già presa ma non dichiarata, di staccare istituzionalmente il Kosovo dalla Serbia e avviarne l’indipendenza, come già gravemente hanno fatto l’Ammministrazione Unmik e la Nato in questi sei sanguinosi e silenziosi anni. Se vogliamo invece che nei Balcani si consumi tanta storia quanta se ne produce, l’Occidente non si può pretendere l’indipendenza del Kosovo senza svelare che, alla fine, le motivazioni «umanitarie» (fermare la pulizia etnica di Milosevic) non erano vere perché invece il terrore dei bombardamenti aerei fu necessario a preparare il cambiamento dei confini sul terreno, non certo a difendere uno stato multietnico che valesse per i kosovaro albanesi e per i serbi kosovari. Si spiegherebbe così il perché del silenzio durato sei anni, squarciato solo per pochi giorni di fronte alle fiammate del marzo 1994, sulla contropulizia etnica a danno dei serbi, dei rom, dei goranji, degli ebrei e delle altre etnie. Altro che vittimismo.

La guerra Nato per la secessione etnica?

Perché non dire allora, con maggiore spregiudicatezza, che di fronte a questo voltafaccia sugli accordi di pace di Kumanovo del 1999 che comunque attribuivano alla Serbia la provincia del Kosovo – e per quello finì la resistenza armata dell’esercito di Belgrado e finirono i raid devastanti della Nato – si reinnescherà inevitabilmente l’odio. Mentre la Comunità internazionale volente (Gli Stati uniti) e nolente (l’Unione europea) è pronta a concedere l’indipendenza sotto ricatto di milizie armate kosovaro-albanesi scese in questi giorni in piazza nella Drenica a controllare manu militari il territorio, sempre sotto gli occhi «vigili» della Nato e delle truppe americane che hanno in Kosovo a Camp Bondsteel, presso Urosevac, la più grande base militare di tutta l’area. Perché con quella guerra l’America ha strappato il controllo della Nato all’Europa. Ora quell’istituzione, diventata chissà perché pietra agognata di paragone per ogni standard «democratico», detta priorità, leggi finanziarie e budget di riordino istituzionale-militare ed economico in tutti i paesi dell’est e dell’ovest europeo.

La panacea del miraggio europeo

E ancora. Come si possono de-balcanizzare i Balcani – è il titolo del saggio di Giuseppe Chucchi – se questa è la situazione? Com’è possibile proporsi un superamento di Dayton e della risoluzione Onu 1244 sul Kosovo che dice che è provincia serba, accettando di fatto, auspica Limes, che «in Bosnia nascerà uno Stato musulmano, mentre il resto sarà annesso da Serbia e Croazia» mentre per il Kosovo «l’unica soluzione è l’indipendenza» stando attenti a non favorire naturalmente la «Grande Albania»? Di che parliamo, ora che è tornato al potere a Tirana Sali Berisha – di cui scrive Roberto Morozzo Della Rocca – e mentre l’area di Tetovo in Macedonia resta al di fuori di ogni legge? Soprattutto chi dovrebbe de-balcanizzare i Balcani? Basterebbe chiamare Europa la stessa area geopolitica destabilizzata e divisa, per chiudere i giochi?

La risposta a quest’ultima domanda è nota: l’Unione europea è soluzione di tutti i problemi. Attraverso un non ben specificato sistema d’integrazione subito, quell’Europa che nel 1991 aiutò la distruzione della Jugoslavia ora dovrebbe aprirsi ai paesi deboli residuo di quella frantumazione, dice il Rapporto di Giuliano Amato, senza che mai nessuno riconosca responsabilità in merito. Ed è certo che questo potrebbe essere un elemento riparatore se il Continente europeo fosse un’entità politica realmente autorevole. Invece è una magra consolazione, visto che l’Unione europea, dopo la bocciatura francese della sua pseudo-Costituzione, si avvia ad essere solo un’entità monetaria ed economica e poco di più, con al suo interno, introiettate e non risolte, tutte le questioni di autonomia, autodeterminazione, autoproclamazione etniche e non che nei Balcani ha preteso di dirimere nel 1990-1991 a suon di riconoscimenti statuali e nel 1995 e poi nel 1999 a suon di bombardamenti aerei. A tal proposito è l’ex ambasciatore in Italia della Jugoslavia, Miodrag Lekic a scrivere nel suo «I Balcani di Ratzinger» dell’auspicio che la Santa sede modifichi alla radice il suo modus operandi nel vicino Oriente balcanico. Perché se continuerà a muoversi come una vera e propria milizia qual è stata la forza del pontificato di papa Wojtyla verso la cattolicissima Croazia, prima riconosciuta poi glorificata con la santificazione del filonazista cardinale Stepinac, e non invece al di sopra delle parti, ecco che le altre confessioni, ortodossa e islamica, spingeranno anche loro l’accelleratore religioso in difesa delle loro «chiese».

Sarajevo, il fallimento e le ombre

Anticipo di questa deriva è quel che accade in Bosnia Erzegovina. Un paese di quattro milioni di abitanti ha 14 livelli di governo ed è sostanzialmente spaccato tra due entità, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska con un Alto rappresentante per le Nazioni unite, non eletto da nessuno, che in continuazione ha destituito spesso primi ministri e interi governi democraticamente eletti che a suo dire contraddicevano lo status rigidamente etnico della Bosnia Erzegovina. Una follia e un fallimento. Dove i partiti al potere usciti vittoriosi dalle recenti elezioni politiche sono le stesse formazioni politiche e gruppi mafiosi che hanno alimentato e gestito la guerra lucrando sul fragile dopoguerra internazionale. Con una scoperta in più che Limes ci propone: impegnati a sciogliere le milizie armate, spesse riciclate nelle nuove polizie, sono stati lasciati intatti gli apparati ideologici, i modelli religiosi e i gruppi «missionari» dell’Islam più radicale che a Sarajevo si fanno sentire in modo sempre più forte. Lo scrive Giuseppe Zaccaria che elenca l’infinita realtà di nuove moschee e centri islamici finanziati dall’Arabia saudita, gli imam integralisti e i loro sermoni antioccidentali. Un evento normale della nuova Europa. Se quegli atti non corrispondessero, e negli stessi luoghi, alla più alta presenza durante la guerra in Bosnia di mujaheddin combattenti al servizio del presidente Alja Izetbegovic e provenienti dall’Afghanistan, dall’Arabia saudita, dal Libano, dall’Algeria, dal Pakistan. Arrivati nei Balcani con tanto di lasciapassare degli Stati uniti come provò nel 1996 un’inchiesta del Senato americano. E’ la pista Al Qaeda nei Balcani, la «Dorsale verde» di cui parla Darko Tanaskovic che non dimentica di citare il coraggiosissimo lavoro – ha eguali solo con il lavoro antinazionalista di Feral Tribune in Croazia – sulle gravi responsabilità delle milizie islamiche durante il doppio assedio di Sarajevo condotto da alcuni giornalisti musulmano-bosniaci della rivista sarajevese Dani.

No, dai Balcani facilmente non si esce attribuendo a loro la barbarie e a noi la civiltà. Non ne usciremo fintantoché non ci sentiremo più «schiaccati da due follie», divisi tra due «facce dell’Europa», come scrive Adele Mazzola raccontando la sua esperienza sotto i bombardamenti – anche per noi indimenticabili – di Belgrado mentre si attivava il sibilo delle sirene d’allarme: «…ebbi la sensazione, mentre affrettavo il passo per le strade ingombre di macerie, di sentirmi schiacciata tra due follie, una urlante e minacciosa sopra il mio capo, pronta a colpire, e l’altra, sotto i miei piedi, degradata a bersaglio eppure ancora dispensatrice di tronfie false sicurezze. Follie perfettamente e inconciliabilmente parallele…».