Baghdad, quattro anni fa

Quattro anni fa, il 9 aprile, le truppe americane occupavano Baghdad completando l’invasione dell’Iraq. C’è chi aveva parlato allora di iracheni in festa, ma a festeggiare l’arrivo delle truppe americane sulla piazza Firdaus (paradiso!) erano solo i collaboratori dei giornalisti occidentali, comunque qualche centinaio di persone. Gli altri iracheni, come avevano fatto nei giorni dei bombardamenti, restavano asserragliati dentro le loro case, temendo il peggio. E il peggio sarebbe arrivato, presto.
Le statue di Saddam cadevano una ad una, tirate giù con l’aiuto dei carri armati americani. Alcuni iracheni guardavano attoniti, pochi ragazzi si divertivano giocando con la testa mozzata della statua dell’ex rais per farsi riprendere dalle tv occidentali, altri piangevano, ma i più osservavano: «Volevo la fine di Saddam, ma non volevo che finisse così, con l’occupazione del paese».
Sono passati quattro anni e anche chi sperava in un miglioramento della situazione non ha più speranza. La situazione è andata continuamente peggiorando. Mancanza di sicurezza, di lavoro, di elettricità, di acqua, di benzina. Guerra civile, pulizia etnica, libanizzazione del paese.
In questo quadro terrificante si consuma l’agonia di Baghdad. L’unico obiettivo è quello di riuscire a fuggire dall’Iraq, questo è il contenuto delle e-mail che ci arrivano dagli amici che ancora vivono a Baghdad. Che chiedono il nostro aiuto. Ma non è facile, siamo impotenti di fronte al disastro totale.
La capitale irachena è un insieme di quartieri divisi per appartenenza etnico-confessionale, la pulizia etnica ha svuotato interi caseggiati che vengono occupati da cecchini e gruppi armati. Il quartiere al Mansur, sulla riva occidentale del Tigri, una volta zona di ministeri e residenze per i più alti ranghi del regime e per diplomatici, ora è una città fantasma: abitata prevalentemente da sunniti è stata abbandonata dal governo di al Maliki (sciita).
Nessun servizio è garantito, tanto meno la sicurezza, i negozi sono sbarrati, le strade deserte, compresa la trafficatissima Ramadan street, ora interrotta da blocchi di cemento (come tutte le zone a rischio) e costeggiata da rotoli di filo rasoiato. Per avere qualcosa da mangiare bisogna andare a casa dei commercianti che non osano più alzare le saracinesche dei loro una volta sfavillanti negozi. Paradossalmente ora la zona più ambita della capitale è quella orientale, abitata prevalentemente da sciiti e quindi più protetta. Servizi e sicurezza, si fa per dire, sono garantiti dall’esercito del Mahdi di Muqtada al Sadr. Ma anche sulla riva orientale del Tigri è difficile pensare a una vita più normale visto che non viene risparmiata dagli attacchi di al Qaeda. Ogni attività è limitata dalla mancanza di elettricità che arriva, quando va bene, due ore al giorno. E anche il funzionamento dei generatori dipende dalla disponibilità di combustibile. Ma almeno le razioni di cibo distribuite dal governo ai più poveri arrivano. La sorte peggiore tuttavia tocca alle enclave sunnite in zona sciita, come il quartiere di Adhamiya, controllato da gruppi armati che si alternano. Il capo del consiglio distrettuale è stato ucciso in marzo, così come il suo predecessore.
Quattro anni fa, uno dei primi provvedimenti presi dal proconsole Paul Bremer, a capo dell’Autorità provvisoria della coalizione, era stato lo scioglimento del ministero della difesa (e quindi dell’esercito) e del ministero dell’informazione, oltre che del partito Baath. Uno delle scelte più miopi – ora lo riconoscono tutti – che ha fornito alla resistenza uomini, ben addestrati e ben equipaggiati, e armi. Per porvi rimedio il governo al Maliki e il presidente Talabani hanno deciso una revisione – la cui bozza è stata comunque varata dagli americani – della legge di debaathizzazione prevedendo il reintegro nei loro posti di lavoro dei membri dell’ex partito unico dei gradi inferiori, mentre per gli esponenti dei primi tre livelli del partito è prevista una pensione. Il recupero di alcuni quadri del partito Baath, decisivi per il funzionamento delle strutture statali, segue il tentativo dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad di recuperare i settori «meno radicali» della resistenza. Numerosi incontri si sono svolti lo scorso anno in Giordania, a Baghdad e Cipro. Il risultato tuttavia è difficile da verificare anche perché vista la frammentazione dei gruppi della resistenza è impossibile stabilire il grado di rappresentatività dei partecipanti ai colloqui. Il fatto più rilevante è tuttavia la scelta dei gruppi della resistenza sunnita di prendere le distanze (a volte di combattere: ci sono state le prime schermaglie) i gruppi di al Qaeda. Soprattutto dopo che «al Qaeda ha ucciso i generali Mohammad e Saab a Ramadi abbiamo deciso di vendicarli», ha riferito Abu Marwan, sedicente portavoce di gruppi della resistenza.
Tuttavia un vero cambiamento della situazione passa attraverso un’inversione della tentenza alla frantumazione del paese che può avvenire solo con il ritiro delle truppe straniere. Decisione annunciata dalla Gran bretagna e favorita dalla maggior parte dell’opinione pubblica Usa. Il dibattito ha investito il congresso e il senato americano che hanno respinto la richiesta di rifinanziamento della missione. Difficile tuttavia immaginare un ritiro totale, anche i democratici americani difendono innanzitutto gli interessi degli Stati uniti e la legge sulla privatizzazione del petrolio non basta, occorrerà farla applicare e restare nelle basi del paese o ai confini, pronti a difendere le compagnie americane.
L’unica buona notizia arrivata negli ultimi giorni da Baghdad è l’apparizione nella zona orientale della città di migliaia di bandiere nazionali – sui tetti, sui pali della luce, ai semafori, nei negozi. Dopo quattro anni di occupazione, anche questo è un segno di ribellione, ma pacifica, di buon auspucio.