La violenza, il terrore e il caos sembrano regnare indisturbati a Baghdad. Nella sola giornata di ieri le autorità locali hanno rinvenuto, lungo le strade e fra le discariche di diversi quartieri della città, i corpi di 60 persone, vittime probabilmente degli scontri interconfessionali che, dalla cacciata di Saddam Hussein, vede contrapporsi soprattutto le componenti sciite e sunnite. Dato preoccupante è che il ritrovamento di tutti questi cadaveri è avvenuto nell’arco di appena 24 ore. Una fonte del ministero degli interni iracheno rivela che i corpi, mostravano segni di torture, di colpi di arma da fuoco alla testa e quasi tutti avevano le mani legate dietro le spalle.
Molte testimonianze, suffragate anche da un’inchiesta stilata dall’Onu, parlano di veri e propri «squadroni della morte», che in Iraq si stanno rendendo responsabili di esecuzioni e di massacri nei confronti di civili. Il segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan, due giorni fa, nel presentare un rapporto redatto dall’Onu, definiva l’Iraq «una delle più violente aree di conflitto del mondo» dove ogni giorno vengono ammazzati in media, secondo i dati raccolti nei mesi di giugno e luglio, «100 civili al giorno, 3000 al mese».
La mattanza irachena non si limita solo alle azioni criminali degli «squadroni della morte», ma quotidianamente le autobomba contribuiscono a tenere alto il livello dello scontro e soprattutto il numero dei morti. A Baghdad nella giornata di ieri si sono contati alcuni attentati con autobomba che hanno provocato decine di morti e feriti. Il più grave è avvenuto davanti ad una caserma di polizia, vicino agli uffici della motorizzazione che si trovano in prossimità dello stadio nella zona orientale della città. Secondo fonti ufficiali (provvisorie) vi sarebbero stati 14 morti e più di 50 feriti. Un’altra esplosione, questa volta avvenuta davanti ad un impianto per la distribuzione dell’energia elettrica sempre a causa di un’autobomba, ha causato la morte di 8 persone e il ferimento di altre 17. Alle prime ore dell’alba è stata centrata con alcuni colpi di mortaio anche una caserma di polizia nel centro della città, dove sono rimasti uccisi due agenti e feriti altri sette. Questa è la cronaca di una normale giornata di guerra a Baghdad. Nel resto del paese, come a Samawara, Hit, Kirkuk e Mossul, si è comunque continuato a combattere. Fonti del contingente statunitense parlano di un militare «morto in azione» nella provincia di Anbar.
E mentre per le vie della capitale irachena risuonavano le ambulanze e si raccoglievano i morti, in un tribunale iper-blindato si apriva la sesta udienza per il processo contro l’ex dittatore Saddam Hussein e sei suoi diretti collaboratori. Gli imputati sono accusati dello sterminio di decine di migliaia di curdi avvenuto alla fine degli anni ottanta nell’ambito della cosiddetta campagna di Anfal. Durante il processo, il pubblico ministero Munqit al Faraon ha invitato il giudice Abdallah al Ameri a dimettersi poiché influenzato dalla figura del rais. La parzialità del giudice, secondo al Faraon, la si evince dalle libertà concesse agli imputati nell’esternare certe dichiarazioni. Durante il procedimento sempre secondo il pubblico ministero, Saddam e i suoi ex collaboratori «pronunciano espressioni e parole inaccettabili, minacciando il tribunale e i testimoni». Tre giorni fa al Ameri avrebbe concesso al rais di definire gli avvocati di parte civile e i testimoni: «agenti sionisti e dell’Iran». Il giudice rigettando le accuse ha comunque dichiarato di non volersi assolutamente dimettere visto che al suo fianco giocano venticinque anni di esperienza. Dopo questa accesa diatriba il processo è continuato.