A Baghdad, il suono più comune che oggi si sente nelle strade è il fracasso insistente dei piccoli generatori privati.
La vista più comune, a parte i blocchi stradali della polizia e dell’esercito, sono gli striscioni neri sui muri e sulle staccionate, che annunciano la morte delle persone.
E il sentimento più comune nel quale ci si imbatte è un tipo di collera cupa, che brucia lentamente.
Queste cose rappresentano un fallimento considerevole delle speranze e delle aspettative che molti iracheni coltivavano quattro anni fa.
I generatori ci sono perché gli americani e i successivi governi iracheni non sono riusciti a risolvere la situazione dell’elettricità. E le morti si verificano perché non hanno creato la pace qui.
‘Ci aiuteranno’
E’ facile dimenticare quanto fossero alte le aspettative un tempo.
“Non mi piace la sensazione che il mio Paese sia stato invaso”, mi diceva un negoziante di Haifa Street, più o meno un giorno dopo la caduta di Baghdad. “Ma, grazie a Dio, a fare questo sono stati gli americani. Sono il Paese più ricco al mondo. Ci aiuteranno”.
Ma non lo hanno fatto. Non hanno nemmeno protetto i ministeri e gli edifici pubblici e i musei dai saccheggi.
Abbiamo fatto riprese mentre la gente urlava: “Fate qualcosa!” a un soldato americano, mentre i ladri stavano scappando con attrezzature mediche di valore dall’ospedale alle nostre spalle. Si era limitato ad alzare le spalle, e si era girato dall’altra parte.
Gli iracheni erano infuriati per la cattiva gestione evidente e i furti sfacciati commessi dai contractor americani e dai politici iracheni nel primo anno dopo l’invasione.
Provavano poco più che disprezzo per l’amministrazione debole di Paul Bremer, il proconsole americano il cui solo incarico importante in precedenza era stato quello di ambasciatore Usa nei Paesi Bassi.
Allora e adesso
Quando ero andato a trovare il negoziante in Haifa Street, nel maggio 2003, c’ero andato a piedi, da solo.
C’era il rumore occasionale del fuoco da armi leggere, e a volte alcuni gruppi di persone mi guardavano con rabbia. Ma non avevo avuto la sensazione che la mia vita fosse in alcun modo in pericolo.
Un paio di giorni fa, sono tornato in Haifa Street. Di recente è stata teatro di una serie di battaglie, nelle quali uomini armati sunniti sono stati sloggiati dalle loro postazioni dagli americani e dall’esercito iracheno.
E’ difficile per un occidentale disarmato andarci adesso, e ho dovuto spostarmi in un furgone privo di contrassegni, con tende scure ai finestrini, e due guardie di sicurezza britanniche per proteggermi.
Il negoziante che avevo incontrato quattro anni fa non c’era più da tempo. Non c’era nessuno a cui chiedere: anche tutti gli altri negozi in fila uno dopo l’altro avevano cessato l’attività.
Il giorno seguente, di mattina presto, sono andato a fare riprese in un grande ospedale cittadino. Durante l’ora in cui sono stato lì, sono stati portati sei corpi, trovati per strada quella mattina. Erano stati tutti torturati in maniera evidente, e a uno avevano segato via i piedi. Era solo una mattinata normale.
Dopo la caduta di Baghdad, inviavo a Londra servizi via satellite su attacchi nei quali venivano uccise una o due persone. Allora era veramente una notizia. Giovedì scorso, è esplosa una bomba nei pressi della fine della strada dove la BBC ha il suo ufficio, nel centro di Baghdad. Otto persone sono rimaste uccise e 25 ferite, e avevamo delle immagini piuttosto buone.
Ma non ho chiamato Londra per proporre un servizio. Di questi tempi, per finire nei telegiornali, o sulla prima pagina dei giornali, bisogna che muoia molta gente. Direi che la cifra attuale è di 60 o 70 persone; e certamente non sarebbe l’apertura.
Questo non perché ai capiservizio non interessi; è perché succede talmente spesso che sembra appena una notizia.
Cinismo e rabbia
Dopo quattro anni di occupazione, questa è una città pericolosa, indifferente, spaventata, ansiosa.
La stanchezza ha prodotto uno scetticismo fra i suoi abitanti in merito al calo della violenza che l’attuale “balzo” delle truppe americane sembra avere portato.
Essi credono per la maggior parte che le varie milizie combattenti terranno giù la testa finché dura il “balzo”, poi verranno di nuovo allo scoperto quando gli americani se ne saranno andati.
Ma cinismo e rabbia non sono le uniche emozioni.
Nell’ospedale in cui sono stato, ho intervistato un chirurgo vascolare che era riuscito a ricucire il braccio di una ragazzina dopo un attentato.
“Lei deve essere disgustato di tutto questo”, gli ho detto. “E’ tentato di lasciare il Paese, come hanno fatto tanti dei suoi colleghi?”
“No”, ha risposto, “Anche se sapessi di venire ucciso domani, rimarrei qui. E’ il mio dovere”.
Un giorno, questo tipo di atteggiamento farà sì che questo torni ad essere un Paese vibrante, efficiente. Ma per un po’ questo non succederà.
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)