È inutile girarci intorno: nell’Unione prevale, ai più alti livelli, un orientamento favorevole a riformare la Costituzione italiana. Non c’è occasione nella quale non circolino insistenti i ritornelli della gloriosa stagione “costituente” del ’97: persino in queste ultime settimane che ci separano dal voto referendario del 25 giugno, quando dovremmo essere compatti per conseguire il risultato di mettere la parola fine alla sciagurata riscrittura della seconda parte della Carta imposta lo scorso anno dal centrodestra.
Da ultimo ci si è messo anche il segretario dei Ds. Nel corso del dibattito sulla fiducia alla Camera, tacciando implicitamente di conservatorismo quanti si battono per salvare la Costituzione del ’47, l’on. Fassino ha tenuto a mettere in chiaro che se l’Ulivo è per il No al referendum, ciò non riflette «un istinto di conservazione», bensì «la consapevolezza della necessità di grandi cambiamenti e di innovazioni dell’assetto istituzionale e costituzionale del Paese», a partire dal «completamento del federalismo». Un piccolo capolavoro in poche parole: non solo un rilancio in grande stile dell’impegno «riformatore» del centrosinistra, ma anche una sorprendente rivendicazione di quella modifica del Titolo V della Costituzione che ormai quasi tutti riconoscono sbagliata nel metodo e nel merito. Perché ha fornito alle destre un alibi per modificare la Costituzione a colpi di maggioranza. E perché ha inaugurato un inesauribile contenzioso tra lo Stato e le Regioni in ordine ad ogni sorta di competenze, dagli asili nido al restauro degli edifici storici, ai contributi per le saghe paesane.
Ma se di questi tempi l’on. Fassino stenta a trovare espressioni felici (l’intervista al Foglio del 6 maggio scorso, nella quale presentò la candidatura di D’Alema al Quirinale come «il primo atto di pace» col centrodestra, rimarrà a lungo un esempio di sagacia tattica), non per questo le sue valutazioni in materia costituzionale restano isolate. Intervenendo nel dibattito alla Camera, Romano Prodi lo ha subito rassicurato. «Non siamo certo chiusi ad aggiornare la Carta costituzionale», ha tenuto a precisare. Giusto una settimana prima, lo stesso presidente Napolitano aveva ribadito l’esigenza di «verificare la possibilità di nuove proposte di riforma» di quella Costituzione alla quale aveva appena giurato fedeltà. Nel suo discorso di insediamento dinanzi alle Camere riunite, il nuovo presidente della Repubblica aveva fatto di più. Aveva tenuto a sottolineare come nessuno dei progetti di revisione costituzionale sin qui succedutisi abbia messo in questione i principi fondamentali fissati nella prima parte della Carta. Con ciò riprendendo – e legittimando – un argomento caro ai «riformatori» di ogni parte politica, sempre preoccupati di rassicurare sul rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza. Come se lo stravolgimento dell’architettura istituzionale, la frammentazione del Paese e la concentrazione di potere nelle mani del «capo del Governo» non avessero nulla a che fare con i diritti dei cittadini e con la stessa struttura della cittadinanza. Non c’è da stupirsi se, commentando il discorso di Napolitano, un quotidiano nazionale abbia intitolato: Ritorna lo “stile Costituente”. Né meraviglia che, facendo eco al capo dello Stato, il neo-ministro per le Riforme Chiti abbia anch’egli sostenuto che, mentre «i principi fondamentali vanno bene», la seconda parte della Carta va invece «aggiornata» per ciò che riguarda «la forma del governo e dello Stato».
Intendiamoci, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Di riformare la Costituzione si parla da oltre vent’anni. Di Commissioni bicamerali istituite con questa finalità se ne sono avute ben tre, dal 1985 ad oggi. E la sinistra gioca con progetti di «grandi riforme» istituzionali sin dalla fine degli anni Settanta, da quando – introiettato l’imperativo categorico della «governabilità» – si è unita alla destra nell’accusare il Parlamento (e la Costituzione, colpevole di riservargli una indebita centralità) di intralciare l’azione dell’esecutivo. Ancora nell’autunno del 2004, mentre il progetto elaborato dai quattro di Lorenzago era in discussione alle Camere, due figure di primo piano dell’Ulivo, Giuliano Amato e Luciano Violante, hanno lanciato la proposta di una nuova Commissione di revisione costituzionale. Che non si trattasse di un’idea estemporanea lo dimostra il fatto che la proposta – formalizzata nel corso di un seminario nel giugno dello scorso anno – viene ripresa proprio in questi giorni dai costituzionalisti più impegnati del fronte riformista, a cominciare da Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, da sempre fautori di radicali modifiche della Carta del ’47.
E allora, qual è la questione? Che nell’ambito dell’Unione vivano culture politiche e orientamenti molto diversi tra loro, non è né una novità né necessariamente un problema. Che queste divergenze coinvolgano anche una materia nevralgica come l’assetto costituzionale del Paese è certo motivo di attenzione, ma non può sorprendere e non deve per forza di cose suscitare allarme. Il punto è un altro. Anzi, sono altri due.
Il primo – il più urgente – ha a che fare con la situazione nella quale ci troviamo dopo la fortunosa vittoria elettorale alle politiche, al cospetto di un esito interlocutorio delle amministrative e alla vigilia del referendum costituzionale di giugno, nel quale la destra si gioca il tutto per tutto con l’intento di mettere in discussione l’intero quadro politico prodotto dal voto di aprile. In tale contesto, l’agitarsi dei riformisti e le insistite aperture dei loro autorevoli mentori suscitano non poco sconcerto. Tanto più che si è ritenuto opportuno lanciare un appello che ruota intorno a una parola d’ordine a dir poco disorientante. Il 25 giugno bisognerebbe «dire un “no” per dire un “sì”»: un sì ad altre modifiche costituzionali e all’istituzione di una Convenzione che dovrebbe dare avvio ad un «percorso costituente». Sulla base di questa piattaforma, ricorrendo ad espedienti polemici arcinoti (chi difende la Costituzione è un conservatore; chi si oppone alla controriforma berlusconiana senza manifestare il proprio intendimento «riformatore» vuole «demonizzare le riforme»), Barbera e Ceccanti hanno raccolto oltre duecento firme, tra cui quelle di Nicola Mancino, di Mario Segni e della neo-ministra Melandri. C’è da chiedersi come mai i firmatari dell’appello non si avvedano dei rischi generati dalla loro iniziativa.
In Italia una campagna elettorale lunghissima e senza esclusione di colpi ha prodotto un’enorme confusione. Su queste materie, in particolare, vi è un allarmante deficit di informazione. La destra ha tutto l’interesse a mobilitare il proprio elettorato e ha mostrato di essere assai abile ed efficace su questo terreno. L’on. Berlusconi non fa mistero di accarezzare sogni di rivalsa e di puntare sul referendum per «dimostrare che la sinistra non è maggioranza nel Paese». A dargli man forte ha lustri di propaganda antipolitica, plebiscitaria e pseudofederalista. È possibile non comprendere che introdurre oggi distinzioni e paletti potrebbe dividere lo schieramento del No sino a compromettere le sorti di una sfida vitale per la nostra democrazia? È possibile non vedere che chiedere di bocciare la Costituzione di Calderoli dichiarandosi pronti a cambiare quella vigente significa offrire all’avversario l’argomento più forte e persuasivo? Quello di chi dice che allora tanto vale accoglierle queste modifiche, tanto più che gran parte di esse entrerebbero in vigore tra diversi anni (nel 2011 o nel 2016) e che vi sarebbe tutto il tempo di perfezionarle nel corso di questa legislatura?
Il fatto è che non di ingenuità si tratta ma, con ogni probabilità, di sostanza politica. E qui veniamo al secondo punto che va posto in chiaro. Al professor Barbera la Costituzione della destra non piace in toto, ma egli ne apprezza buona parte e ne condivide – così ci pare – lo spirito informatore. Gli sembra augurabile introdurre l’elezione diretta del premier. Gli pare opportuno riservare al primo ministro (eletto direttamente dal popolo) il potere di sciogliere le Camere. Si augura che venga sancita una normativa «antiribaltone» (che comporterebbe la costituzionalizzazione surrettizia del sistema maggioritario e azzererebbe quanto resta dell’autonomia del Parlamento). E, naturalmente, auspica la realizzazione di un «vero federalismo». Com’è evidente, si tratta di modifiche analoghe a quelle propugnate dalla Casa delle Libertà. Il modello è quello di una «democrazia immediata» (plebiscitaria: e non è un caso che Barbera e Ceccanti si richiamino esplicitamente a Maurice Duverger), che sacrifica la complessità della composizione politica del Paese (cioè il diritto di tutti gli interessi sociali ad essere adeguatamente rappresentati) sull’altare dell’efficienza (di uno «snellimento delle istituzioni» che santifica il mito della «governabilità»).
Ma del professor Barbera non parleremmo così a lungo se egli non fosse il portabandiera di uno schieramento vasto e molto influente. È questa la questione che davvero preoccupa. All’inizio degli anni Novanta si è imboccata una strada infausta. Sono state introdotte con grande disinvoltura riforme dirompenti (il maggioritario, il presidenzialismo negli Enti Locali, un federalismo di facciata che ha reso ingovernabili i rapporti tra Stato e Regioni). Si è offerta a una destra dichiaratamente avversa alla Resistenza antifascista l’opportunità di governare il Paese umiliando le opposizioni, colpendo i diritti fondamentali del lavoro e appellandosi al «popolo sovrano» contro le istituzioni rappresentative. Si sono poste le premesse per un attacco di inedita violenza alla Costituzione repubblicana che – portando a compimento il disegno restauratore avviato con la «riforma» Castelli dell’ordinamento giudiziario – archivia l’equilibrio tra i poteri e subordina all’esecutivo le istituzioni di garanzia, rimettendo all’ordine del giorno il rischio di una dittatura del «Capo del governo».
Nonostante tutto questo e nonostante metà del Paese soggiaccia ancora all’egemonia ideologica dell’avversario, non si trova niente di meglio che ricominciare con la canzone delle «riforme». Con il ritornello della distinzione tra principi fondamentali e architettura istituzionale. Con l’ossessione della «governabilità» del sistema. Con la malcelata intenzione di farla finita una volta per tutte con il sistema proporzionale. L’impressione è che si tenda ad adottare in campo istituzionale lo schema invalso sul terreno delle politiche economiche, dove la sinistra appare irretita dalle ideologie dell’avversario. Lì è questione di «compatibilità»: e per questo non si esita a propugnare «riforme» che violano i diritti del lavoro generalizzando la precarietà, privatizzando il privatizzabile e avallando una feroce redistribuzione della ricchezza a vantaggio del capitale. Qui è questione di «governabilità». In nome della quale ci si acconcia a considerare il Parlamento e le istituzioni di garanzia come impacci da imbrigliare. Ma così – gli anni che ci lasciamo alle spalle lo dimostrano – non si costruisce nessuna modernità. Così, seguitando a fondarsi sui cardini del «migliorismo», non si fa altro che preparare la propria sconfitta. Oltre che il disastro di questo Paese.