Il Forum sindacale promosso da un gruppo di segretari delle Camere del lavoro della Cgil è una iniziativa utile. E’ importante la presa d’atto che con l’ultimo Congresso si è concluso un lungo ciclo di confronto politico iniziato alla fine degli anni ’80 e caratterizzato dallo scioglimento delle correnti di partito e dall’esperienza di «Essere Sindacato». Allora si presentò l’occasione per un’azione che, fondandosi sopra un rinnovato protagonismo dei delegati e delle rappresentanze aziendali, facesse del sindacato il soggetto politico di una lotta generale per la democrazia nei luoghi di lavoro come condizione per conquistare democrazia nei processi economici e nel governo delle istituzioni.
Così non è stato. La battaglia per la democrazia è rimasta legata a questioni importanti, ma interne al sindacato: le regole di funzionamento e/o di selezione degli apparati e dei gruppi dirigenti; il diritto di voto dei lavoratori sugli atti contrattuali. Le «aree programmatiche» e le mozioni congressuali hanno faticosamente ridefinito gli equilibri interni alla Cgil. Tuttavia la linea e l’azione sindacale non è riuscita ad andare oltre la difesa dei diritti acquisiti e la tutela di lavoratori sempre più insicuri e con poche prospettive. L’apice di questa politica, che pure ha dato vita a grandi e forti mobilitazioni, è stata la lotta in difesa dell’art. 18 e l’azione per il rinnovo dei contratti, emblematico quello dei metalmeccanici. Non si è fermato, però, il processo di scomposizione sociale, di crisi della solidarietà e della identità sociale del lavoro, che ora ha bisogno, per dirla con Aldo Tortorella, di una nuova «narrazione».
E’ cresciuta, infatti, un’opacità sociale che impedisce alla politica di guardare al lavoro ed al lavoro di guardare alla politica. Non a caso è ormai un decennio che in modo significativo in molte aree del Nord si rimane iscritti alla Cgil e si vota per la Lega o Forza Italia. Questa opacità sociale si affronta con un progetto politico, di cui l’autonomia del sindacato e la rivendicazione di democrazia dei lavoratori sono condizioni, ma non esauriscono il contenuto. I sindacati, per la loro storia, cultura e struttura organizzativa, sono in grado di organizzare gli interessi diffusi dei lavoratori in programmi e proposte generali se tornano a misurarsi nei luoghi di lavoro con la crisi di unità e identità del lavoro dipendente, schiacciato tra innovazione e precarietà. Una più forte capacità di rappresentanza, di recupero della centralità del lavoro dipendente non si costruisce né con i patti sociali (ci vuole autonomia e capacità di iniziativa), né con il solo appello alla mobilitazione e alla lotta (ci vuole capacità di proposta e responsabilità).
Autonomia oggi vuol dire qualcosa di più della polarizzazione concertazione/vertenzialità, vuol dire ricomposizione sociale e confronto di merito con un Governo espressione di quella parte del paese che vuole un cambiamento non solo dell’economia, ma della cultura, delle forme della democrazia, dello spirito pubblico: cioè della politica. Un sindacato indifferente ai partiti finirebbe per essere parte di quell’involuzione verso l’anti-politica che permette di essere duri nei conflitti sociali, ma senza andare oltre una logica di tutela (e non di cambiamento) che inevitabilmente spinge a destra i settori più esposti del lavoro indipendente. Un sindacato risucchiato nel processo di costruzione del Partito democratico percorrerebbe su un’altra china (quella di essere lobby, gruppo di pressione non protagonista delle scelte, come è in USA) la stessa strada di allontanamento dei lavoratori dalla dialettica politica.
Occorre affermare allora in via preliminare, come condizione per aprire una fase diversa in Cgil, la legittimità del confronto tra punti di vista autonomi e generali. Il Forum sindacale a questo può contribuire ridando centralità politica alla questione del lavoro; affermando autonomia dal governo, ma non dalla politica.