«Vogliamo soldi veri e non partite di giro o numeri fantasma». C’è molto disorientamento tra i lavoratori e le lavoratrici italiani sul confronto che si apre oggi tra governo e sindacati sui salari. Basta fare un giro telefonico tra i delegati per rendersene conto. Dal Sud al Nord, la risposta è sempre la stessa: «Intervenire sulle aliquote fiscali? Va bene ma quelle risorse, a ben vedere, sono della collettività e quindi anche nostre». Oppure, «incentivare la defiscalizzazione degli aumenti aziendali vuol dire puntare tutto su soldi che non ci sono sempre». Nei conti delle aziende poi, è sempre molto difficile fare chiarezza. I premi di risultati non sono controllabili dal sindacato. «Bisogna stare a quanto dichiarano loro», sottolinea Roberto Bozzi, delegato del settore chimico. «Da noi a Melfi, per il premio di produzione – sottolinea Dino Miniscalchi – si va dai 40 ai 140 euro. E quindi siamo completamente fuori dal bisogno effettivo di lavoratori che riescono a portare a casa quando va bene mille e duecento euro al mese». «Diciamocelo chiaramente – aggiunge – se i salari sono bassi è perché la concertazione è stata quel che è stato e perché la precarietà ha finito per fare altri danni abbassando di fatto il livello generale dei redditi. A tutto questo non si può rimediare con un palliativo».
Per Pamela, operatrice Vodafone e responsabile Lavoro della federazione Prc di Bologna, «se oggi si parla incrementi salariali è perché i lavoratori sono al limite». «Ma vorrei far notare – aggiunge – che nei call center, dove abbiamo una sorta di part-time imposto le remunerazioni vanno dai seicento agli ottocento euro». «L’incentivo al salario aziendale? E’ un’arma a doppio taglio – risponde Pamela – perché piano piano verrà fuori una differenziazione tra aziende e tra distretti aziendali. Il pericolo che si prospetta è quello delle gabbie salariali». Gianplacido Ottaviano è un delegato Fiom della Bonfiglioli, un’azienda dove diversi lavoratori stanno tranquillamente nello scaglione dei ventisettemila euro l’anno. «Questa storia della defiscalizzazione del salario aziendale l’hanno recepita al volo ma temono lo scambio politico», dice. «Primo, perché non hanno digerito l’accordo di luglio. Secondo, perché temono che incassati gli aumenti, se così si possono chiamare, arriverà un peggioramento delle condizioni di lavoro». «I soldi – conclude – devono essere puliti».
«Tutta questa vicenda non ci sembra una cosa seria – sottolinea Bozzi – «Innanzitutto, perché pretendiamo una redistribuzione del reddito e non qualcosa che gli somigli lontanamente. E poi, perché noi lavoratori non abbiamo mai discusso di nulla con le organizzazioni sindacali». «Alla gente che non arriva alla fine del mese non puoi dire che l’aumento verrà dall’incentivo al salario aziendale», conclude.
Roberto Lollobrigida, invece, è un delegato del Pubblico impiego. Il confronto tra sindacati e governo sui salari lo lascia un po’ perplesso. Comprese le dichiarazioni di Damiano sulla produttività. «Sono anni che si tenta di misurare la produttività nella pubblica amministrazione – dice – e alla fine ci troviamo al punto di partenza. E’ tutto in mano ai dirigenti che sono il vero punctun dolens della pubblica amministrazione». «E poi ci sono due questioni di metodo». Quali? «Innanzitutto, prima di sedersi al tavolo il governo dovrebbe almeno mettere le risorse per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, altrimenti non è credibile. E poi, non si capisce perché nessuno calcola in premessa quanto hanno perso i lavoratori in questi anni e quanto hanno preso le imprese sia dalle casse pubbliche che dalla ricchezza nazionale».
Una questione di “metodo” la solleva anche Maurizio Dotti, delegato Slc-Cgil della Winda, azienda impegnata nel trasferimento di massa da Milano a Roma di circa 250 tra lavoratori e lavoratrici. «La dinamica è la stessa utilizzata dai sindacati nella vertenza aziendale che ci riguarda e in occasione dell’accordo sul welfare: i lavoratori non vengono mai interpellati al momento della stesura della piattaforma».
Anche il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi è contrario all’ipotesi di detassare gli aumenti contrattuali di secondo livello, quelli legati alla produttività. Chiede, invece, interventi che interessino tutti i lavoratori dipendenti. «Legare la detassazione alla produttività – afferma – è iniquo, non è giusto e non va bene. Bisogna invece ridurre le tasse sulla busta paga per tutti e non solo per il secondo livello. Devono pagare sia le aziende che il governo. Siamo contrari al modello ThyssenKrupp, più lavori, più guadagni e più muori».
Infine, il parere di un dirigente sindacale in pensione, che nella sua lunga carriera ne ha viste di cotte e di crude.
«Dal momento in cui si concluderà la “trattativa”,- sottolinea Pietro Ancona, già segretario generale della Cgil Sicilia, – gli imprenditori italiani si riterranno per sempre esonerati dall’obbligo di corrispondere una paga equa come vuole la Costituzione tranne che per la cottimizzazione chiamata “secondo livello di contrattazione” che ha come modello la ThissenKrupp e il rapporto di lavoro asiatico». «Se i lavoratori stanno male anche l’Italia sta male – continua Ancona -. Oggi non sono in grado di pagarsi l’affitto di casa e vivere e vengono spazzati via con le ruspe dai sindaci perbenisti del nuovo autoritarismo post democratico che vuole eliminare dalla vista i poveri e la povertà».