Attuare la Costituzione

1. La Costituzione democratica ed antifascista ha respinto l’attacco più organico, più massiccio e più distruttivo dei tanti che ha subìto. Nata dalla Resistenza antifascista, ha fatto la sua ‘Resistenza’ all’anti-antifascismo. E ha vinto.

Ma basta? La domanda non è peregrina. La vittoria della Costituzione pur netta, chiara, splendida, non è definitiva. È insidiata da più parti, diverse e diversamente collocate durante la campagna referendaria. Tra coloro che si sono dichiarati per il ‘no’, i dirigenti dei due maggiori partiti del centrosinistra, non si sono rivelati particolarmente solleciti a mobilitare le loro organizzazioni, lo sono stati invece a promettere alla maggioranza che ha approvato le modifiche alla Costituzione, cioè ai nemici della Costituzione, aperture, comprensioni, dialoghi, ampia disponibilità a discutere … per ‘riformare’. E si dimostrano oggi quanto mai coerenti. Non con la scelta del ‘no’, ma con la loro propensione a recepire non poche pretese del revisionismo costituzionale, addirittura l’ideologia dell’avversario storico del costituzionalismo democratico. Dopo il ‘no’ e non ostante il ‘no’, espresso dalla stragrande maggioranza (61,3 per cento) della netta maggioranza (53,7 per cento) del corpo elettorale italiano. Come se il rifiuto della controriforma della costituzione non fosse stato pronunziato liberamente, massicciamente, reagendo sia all’ingannevole ma poderosa propaganda delle tre reti televisive di proprietà del Presidente del consiglio, leader della coalizione parlamentare responsabile dell’aggressione alla Costituzione consumata nelle aule parlamentari, sia alle reticenti informazioni che ha fornito la Rai, spasmodicamente e puntigliosamente impegnata ad occultare la portata delle modifiche contenute nel testo sottoposto a referendum. La destra, ovviamente, non si è certo rassegnata alla sconfitta. Fini, discutendo con i leaders del centro-sinistra, precipitatisi, il giorno stesso del grandioso trionfo del ‘no’ a discutere nientemeno che … sul come rilanciare le ‘riforme’, ha chiesto, non a caso, che gli venisse presentato un quadro organico e completo. La destra, infatti, rifiuta il metodo della revisione puntuale delle norme costituzionali prevista e prescritta dall’articolo 138 della Costituzione, per respingerne la logica specifica, e, con essa, l’ispirazione complessiva, lo spirito e i contenuti identificanti la Costituzione stessa pur salvata dal voto popolare. Perché pretende un’organica e sistematica mutazione della normativa di vertice del potere statale, nonostante l’esito del referendum, contro l’esito del referendum.

L’anticostituzionalismo è duro, non cede, non cederà. Nella dimensione del giuridico, da duecento anni e più, addensa e dispiega la reazione permanente del potere, ovunque si annidi, alla forza dialettica che storicamente gli si oppone per frammentarlo, riconoscendo diritti e diffondendo libertà ed eguaglianza. Si è innestato negli ultimi tempi nel revisionismo, ponendosi come la sua attuale valenza nella dimensione delle istituzioni. Fa leva su qualsiasi pulsione collettiva al particolarismo antisociale, all’egoismo, al razzismo. Profitta di ogni occasione che può esserle propizia. Se eccita miserabili ambizioni a legare il proprio nome a qualche modifica anche se distorcente, sa combinarsi con disegni più o meno definiti di nuove alleanze, di una diversa aggregazione delle forze politiche. Assembla interessi molto forti e complessi anche non trasparenti. Dispone di molte forze e cospicue, tutte quelle che si battono per comprimere la democrazia italiana, per ‘normalizzarla’, per renderla compatibile con le esigenze supreme iscritte nelle leggi del libero mercato, interno, europeo e mondiale. È un obiettivo di questo tipo che si persegue col ‘riformismo’ costituzionale. Non bisogna dimenticarlo.

2. Comprendere e combattere l’anticostituzionalismo impone però una profonda riflessione sulle vicende istituzionali che hanno portato la nostra Repubblica sull’orlo della sua estinzione, con la mutazione perseguita della sua identità costituzionale sterilizzandone i princìpi, rinnegandone i compiti, rovesciandone la legge della sua dinamica, cioè la democrazia in monocrazia. Impone, cioè, di meditare sull’aggressione multipla, continua, sempre più insidiosa e sempre più incalzante subita dalla Costituzione repubblicana. Si considerino pure materie d’archivio (che tuttavia è deposito della memoria e non anticamera dell’oblio) gli attacchi, che le mosse, fin dal suo riemergere, la destra neofascista, che mai si riconobbe, ovviamente, nei principi della Carta repubblicana, e che ne rifiutava, come ne rifiutano i suoi eredi, quella certa idea di democrazia, organizzata per poter essere partecipata e che ora propende, invece, per forme almeno plebiscitarie di identificazione con un ‘capo’, eletto, magari, ma impersonante la totalità della Nazione, del popolo, e, se non dello Stato, almeno del suo apparato, quello esecutivo, ma non solo. Si dia il conto che meritano ai tentativi di delegittimarla di isolati personaggi come Pacciardi, e alle trame eversive con cui vennero sostenute le proposte di distorsioni formulate da associazioni come la P2. Quel che non si può, non si deve dimenticare sono le aggressioni che da venticinque anni a questa parte hanno inciso, e molto negativamente sulla cultura politica media del nostro Paese.

Si pensi alla proposta craxiana di ‘grande riforma istituzionale’ (istituzionale, si badi, e non economico-sociale, come avrebbe dovuto essere quella perseguita da un socialista e proprio in conformità al disegno costituzionale). Si pensi al significato populistico ed antipartitico che assunse il referendum elettorale del 1993. Si ricordi che quel referendum fu ammesso da una Corte costituzionale che, rovesciando improvvisamente la sua giurisprudenza, diede prova di incredibile miopia. Quella di non prefigurarsi e nel non valutare gli effetti che quel referendum avrebbe prodotto sul piano della forma di governo e delle garanzie politiche, privando l’ordinamento costituzionale del sostrato su cui reggeva la sua dinamica, il sostrato cioè di una rappresentanza politica che, recettiva delle domande della democrazia, fossero o non fossero compatibili col sistema economico di produzione e di scambio, rispecchiasse la società così com’è, con i suoi conflitti, i suoi bisogni, il suo strutturale pluralismo. Si pensi alle escogitazioni, alle contorsioni, e alle perversioni generate dalle Commissioni bicamerali che hanno provato inutilmente, negli anni ’80 e ’90, a sfigurare l’assetto costituzionale complessivo, e con sempre maggiore approssimazione, annunciavano la devastazione tentata con la legge costituzionale pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 18 novembre 2005, ma respinta dalle elettrici e dagli elettori italiani il 25 ed il 26 di giugno, con un giudizio, un voto, dal significato univoco, l’uno e l’altro.

Lo si potrebbe definire travolgente. Travolgente il disegno eversore disegnato, perseguito e consumato dal centro-destra. Travolgente se fosse sincero ed onesto il rispetto della volontà popolare. Che non è, invece, né sincero, né onesto.

3. Non è tale perché non tiene in alcun conto il significato plurimo di questo voto. Si intenderebbe, infatti, procedere come se non ci fosse stato. Intanto una interpretazione di questo voto andrebbe fatta. Qualche valenza ne andrebbe rilevata. Nei dibattiti tra gli esponenti politici, anche in sedi nelle quali non dovrebbe mancare rispetto per la sovranità popolare, ci si domanda se ‘dopo il referendum’ ci sia ‘una strada per le riforme’. E già il titolo è tecnicamente ambiguo. La Costituzione, quella approvata il 27 dicembre 1947 e che è vigente per voto popolare, contiene una disposizione che ne consente la revisione. È l’art. 138 e denomina di ‘revisione’ le leggi che possono emendare, con la procedura che vi è prescritta, il testo costituzionale. Sostituire la parola ‘riforma’ a quella di ‘revisione’, all’indomani del referendum che conferma pienamente col voto popolare la legittimazione storica della Costituzione del 1948, è già indice di scarsa sensibilità istituzionale … della sede istituzionale ove si vuole discutere del dopo referendum. Si pensa che sia costituzionalmente corretto, che sia legittimo, far ricorso a qualche legge costituzionale con cui derogare alla procedura dell’articolo 138? Si crede che sia possibile rimettere in piedi qualche Commissione bicamerale con procedure e poteri che contraddicono platealmente principi, norme, prassi che da secoli qualificano come tali le funzioni degli organi parlamentari, specie se impegnati in attività legislativa costituzionale o di rango costituzionale? Si medita di importare procedure già usate in Europa e già rigettate dalla democrazia europea nella terra ove nacque il costituzionalismo democratico? Tentare simili macchinazioni è negare valore alla volontà popolare, è violare ogni idea di legalità costituzionale, è usurpazione del potere costituente, così come usurpazione di tale potere è stato l’uso del potere di revisione da parte della destra con la legge respinta col referendum del 25-26 giugno.

4. È necessario, a questo punto, esaminare approfonditamente quale significato, quale forza, quale efficacia ha la reiezione della legge approvata definitivamente dalla Camera dei deputati il 20 ottobre e dal Senato il 6 novembre 2005 recante ‘Modifiche alla Parte II della Costituzione’.

Per venticinque anni, come si è accennato, la Costituzione è stata oggetto di una campagna subdola, poi esplicita, continua, insistente, massiccia, di delegittimazione radicale. Una campagna anche truffaldina per essere stata, più volte e da più parti, presentata come indirizzata soltanto nei confronti della Parte II, e affermando che i principi, i diritti, insomma i contenuti, sanciti nella Parte I non erano in discussione (a questa ipocrisia, per la verità non era ricorso, il cavalier Berlusconi, avevano fatto ricorso altri, alcuni dei quali forse in buona fede o illudendosi di salvaguardarne, in qualche modo, il valore a fronte della devastazione tentata e perpetrata). Si era nascosto il rapporto di strumentalità, che è ineludibile ed insopprimibile, delle scelte, delle determinazioni normative, delle conformazioni istituzionali operate nella Seconda parte della Costituzione nei confronti dei princìpi, dei programmi, dei diritti sanciti nella Prima parte. Si è taciuto che i contenuti della Prima Parte sarebbero stati neutralizzati, svuotati, cancellati, perdendo qualunque efficacia se fossero state distorte le istituzioni necessarie ad inverare quei princìpi, a garantire quei diritti, a realizzare i fini del pactum societatis sancito in Costituzione, primo tra questi contenuti, princìpi e fini, quello di una democrazia che fosse rappresentativa e partecipata, inclusiva e pluralista, mobilitante e garantista.

Ebbene, quest’opera ininterrotta di delegittimazione è stata compiuta dagli apparati ideologici dello stato e della società, nelle sedi parlamentari, sulla stampa periodica e quotidiana, dalle emittenti televisive private e pubblica. Solo quattro volte, prima del 25-26 giugno di quest’anno, il corpo elettorale è intervenuto nel dibattito costituzionale, ma una volta limitatamente ad una specifica revisione costituzionale, tre volte indirettamente ed ambiguamente, mai comunque in modo da far presumere che la sua posizione avallasse la delegittimazione della Carta costituzionale del 1948. Sulla scelta referendaria ex art. 138 della Costituzione qualche considerazione va fatta. Riguardò il Titolo V della Costituzione come modificato con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Quel testo fu approvato, non ostante che si presentasse come un esempio del modo come non va modificata una normativa, specie se costituzionale, non ostante che denunziasse l’inquietante regressione tecnica e politica che caratterizzava ed ha caratterizzato l’innovazione costituzionale che si è andata sperimentando in Italia. Ma fu modesto e svogliato il consenso dimostrato dai votanti nel referendum del 2001 (34,1 per cento).

Maggiori e più rilevanti conseguenze si traggono riflettendo sugli interventi indiretti del corpo elettorale nel corso della fase della delegittimazione costituzionale. La prima occasione che fu offerta alle elettrici e agli elettori di esprimersi su materia quanto mai rilevante costituzionalmente, anche se non inclusa esplicitamente nel testo costituzionale, la materia elettorale, fu, invece, quella del referendum del 1993. Com’è ampiamente noto, il corpo elettorale, a stragrande maggioranza, decise a favore della sostituzione del sistema elettorale proporzionale con quello a prevalenza maggioritaria. Si trattò tuttavia di una decisione referendaria su cui si addensano ancora non poche ombre. Sia per i dubbi, già riferiti, che suscitò la decisione della Corte costituzionale di ammettere quel quesito referendario, rovesciando la sua giurisprudenza in materia e, a quanto si seppe dell’andamento della deliberazione in Camera di consiglio, solo grazie al voto del Presidente della Corte, che, votando a favore dell’ammissibilità, la fece prevalere a fronte del convincimento della esatta metà dei membri del Collegio. Sia perché il corpo elettorale decise in un clima di ubriacatura mediatica. A provocarla era stato lo scandalo di tangentopoli, la cui giusta e ben comprensibile reazione fu orientata a demolire il ruolo dei partiti come tali, al di là delle responsabilità di ciascuno di essi e senza che si potessero prospettare i pericoli insiti e gravissimi derivanti di una deriva populistica e plebiscitaria del sistema politico italiano.

Tutt’altro che privo di significato è però quanto è accaduto dopo quella tornata. Per due altre volte il corpo elettorale è stato chiamato a votare su quesiti referendari concernenti la legge elettorale politica. Miravano quei quesiti all’eliminazione della quota del venticinque per cento dei seggi nei due rami del Parlamento riservata alla scelta con sistema proporzionale dei candidati da eleggere. Per due volte il corpo elettorale ha risposto nel modo negativamente più netto, facendo mancare il quorum per la validità dell’una e dell’altra procedura referendaria. Tale comportamento, anche perché reiterato, può essere considerato come correttivo della decisione adottata nel 1993 nel referendum che implicò la scelta a favore del sistema (prevalentemente) maggioritario? La domanda non è peregrina, è indotta proprio dal rifiuto dello strumento referendario in materia così contigua a quella costituzionale se non addirittura costituzionale tout court. Se ne può desumere anche una propensione del corpo elettorale a rifiutare l’uso della procedura referendaria per l’innovazione costituzionale, ed a rifiutarla per il suo essere di tipo necessariamente maggioritario, semplificato, riducibile necessariamente ad un ‘sì’ o ad un ‘no’. Se ne può anche dedurre un’attitudine del corpo elettorale italiano a difendere il carattere pattizio del testo costituzionale e delle normative di eguale rilievo ed a sottrarle al potere delle maggioranze, sia che tali entità si formino (o siano precostituite) all’interno dell’istituzione rappresentativa, sia che si aggreghino nell’ambito dello stesso corpo elettorale.

5. Il riferimento al carattere pattizio dell’ordinamento costituzionale suggerito dall’esito del referendum del 25-26 giugno, non soltanto esplicita uno dei significati di questo voto. Quello che esclude la possibilità legale e politica che una maggioranza parlamentare si appropri del potere di revisione costituzionale e lo usi come potere costituente, modificando la forma di governo ed insieme a questa quella di stato, travalicando l’essenza della democrazia e tramutandola in monocrazia, spezzando i vincoli di solidarietà economica, sociale e politica tra i cittadini delle varie parti del Paese, disarticolando l’ordinamento giuridico della Repubblica e istituendone tanti altri quanti sono, in ipotesi, i milioni di cittadini della comunità statale, svuotando il principio di eguaglianza. Rivela che il corpo elettorale non soltanto respinge una modifica della Carta costituzionale, ma rifiuta, insieme, il metodo con cui si è tentato di cambiarla, la possibilità stessa di modificarla in quella misura e per quelle finalità. E, inoltre, condanna politicamente il modo, il quanto, il quale ed il fine dell’atto di modifica deliberato.

A seguito della condanna pronunziata, offre poi al testo della Costituzione che si è tentato di modificare un sostegno politico di massa, quello della stragrande maggioranza della maggioranza assoluta del corpo elettorale. Se ne deve anche dedurre che, in questa condanna ed in questa deliberazione legittimante, il corpo elettorale si esprime anche sulla delegittimazione che per venticinque anni è stata perpetrata. La rifiuta, la relega tra i cascami di una storia che non è stata la sua e che comunque ripudia. La rilegittimazione della Costituzione del ’48 non poteva essere più chiara, più netta, più piena.

6. A questo punto, un costituzionalista non può non constatare che una vicenda come quella vissuta dal popolo italiano in questi anni, e che si è provato a descrivere nei suoi caratteri salienti, specie per il modo in cui si è conclusa, non ha precedenti nella storia delle Costituzioni. E si domanda: come si può definire giuridicamente l’atto con cui il corpo elettorale ha respinto una modifica ‘organica’, di 53 articoli, coinvolgente tutto l’ordinamento della Repubblica’? Come specificamente quest’atto si pone riguardo alla Costituzione reintegrata nella interezza dei suoi contenuti e nella pienezza della sua validità, a fronte della delegittimazione operata per un quarto di secolo ed avente ad oggetto proprio la Costituzione?

Si può proporre di far ricorso ad un istituto del diritto privato, quello della novazione, trasferendo al campo del diritto pubblico gli elementi che si prestano a tale ipotesi di trasposizione. L’oggetto resta immutato, è la Costituzione. Si tratterebbe quindi di novazione soggettiva. Passiva ed attiva insieme. Ma tra quali soggetti? Ce ne sono più di due. Se si considera la Costituzione come patto, e non si può escludere che lo sia e se il patto intercorre tra i cittadini, soccorre uno dei principi del costituzionalismo, quel principio che fu scritto nell’articolo 28 della Costituzione del 24 giugno del 1793 secondo cui ‘un popolo ha sempre diritto di rivedere, riformare, e cambiare la propria Costituzione’, e vi si aggiunse che ‘una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future’. Sotto questo profilo, si può dire, allora, che la novazione ha avuto ad oggetto il pactum societatis contenuto nella Costituzione repubblicana del 1948, novazione voluta e dichiarata nelle forme legali, dalle generazioni succedute a quella del 1948. Novazione che ha avuto come oggetto anche quelle forme legali che consentono al popolo mediante il corpo elettorale, organo che ha in comune con lo stato-apparato, di pronunziarsi, di volere o disvolere il pactum societatis. Che contiene anche la clausola subiectionis. Quella però ridefinita dal costituzionalismo che, certo, la conferma ma previo riconoscimento della ‘superiore legalità’ della Costituzione rispetto alle leggi nella cui subiectio si traduce l’obbligazione fondamentale. Il che comporta una carta dei diritti, la loro garanzia e la regolazione costituzionale della produzione delle leggi. Clausola, anche questa, rinnovata e riconfermata il 25 ed il 26 di giugno e nei termini esattamente coincidenti con quelli iscritti nella Costituzione del 1948.

Ma con qualche tratto diverso ed in più. Si crede che il patto costituzionale del 1948 sia intercorso tra i Partiti, framers della Costituzione. Lo si crede con qualche ragione. Non quella intenzionata a svalutare patto e framers, perché la società politica, nel 1946 e per molti dei decenni successivi, era organizzata esclusivamente in partiti, i grandi partiti di massa ed i ‘partiti minori’, che non si distinguevano dai grandi perché di opinione, ma perché avevano minori aderenti e non molti militanti. Negarlo è ridicolo. È quindi fondata la tesi che il Patto costituzionale sia stato stipulato dai partiti dell’Assemblea costituente, dai partiti costituenti. Tutti però scomparsi. Da chi, allora, è stata decisa la novazione del Patto? Una risposta si impone.

La lotta per la difesa della Costituzione dall’attacco che le è stato scatenato dalla coalizione parlamentare di centro-destra e dal governo che poggiava su questa maggioranza, il governo Berlusconi, è stata iniziata da una pluralità di forze, che si sono spontaneamente raccolte in una rete di comitati, collegatisi ad un comitato nazionale che si è poi identificato in quello promotore del referendum costituzionale al quale hanno aderito i partiti del centro sinistra, la CGIL, gli altri sindacati confederali, molte associazioni democratiche. La raccolta delle firme, (800 mila) ha visto impegnati moltissimi comitati spontaneamente costituitisi sul territorio nazionale che hanno fatto capo soprattutto alla CGIL. L’azione di chiarimento del significato del referendum, di illustrazione dei contenuti della Costituzione repubblicana, di propaganda per la reiezione del quesito referendario è stata condotta dai comitati di base, dai militanti del sindacato, dalle associazioni culturali e professionali di ispirazione democratica ed antifascista, tra cui l’ANPI, dalla stragrande maggioranza dei professori di diritto costituzionale, dai militanti di base dei partiti del centro sinistra ed ha avuto soprattutto in un Costituente del 1946, nel Presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, l’animatore saggio, instancabile, autorevole e deciso. Si può allora sostenere che la novazione del patto è stata voluta e realizzata, a sessant’anni dal 2 giugno 1946, dalla società civile, dalle donne e dagli uomini di questo Paese, dalla cittadinanza repubblicana.

7. Sulla base delle riflessioni che precedono, è possibile dare ora, con tutta serenità, due risposte incontestabili alle domande, non sempre insidiose e perverse, anche se ansiose e noiose, oltre che superflue, su come si possa procedere alle ‘riforme costituzionali’.

La prima risposta è questa. È risultato del tutto evidente che il corpo elettorale i diritti riconosciuti dalla Costituzione li vuole, crede che si possano e si debbano inverare nel quotidiano delle donne e degli uomini del nostro Paese. Crede che, ad esempio, i diritti sociali debbano essere difesi, anche contro l’ideologia del liberismo anche se istituzionalizzata in Trattati, in regolamenti, in direttive. Crede che la solidarietà dell’articolo 2 della Costituzione non sia un’espressione della retorica istituzionale, che l’eguaglianza sostanziale non sia un compito recessivo, remoto, caduco della Repubblica, che la rappresentanza politica sia da ricostruire e da rinvigorire perché tramite, condizione e strumento per realizzare quanto dispongono gli articoli che riconoscono i diritti all’istruzione, al lavoro, ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, all’assistenza sociale, sanitaria e alla previdenza, alla sicurezza ed alle condizioni di libertà e dignità umana nei luoghi di lavoro. E tutti gli altri diritti che ne conseguono. Le elettrici e gli elettori italiani hanno riconfermato che fondamento della Repubblica non è il denaro e la pretesa di chi lo detiene ad ottenerne investendolo la massima retribuzione, ma è il lavoro. Con tutto quel che ne deve conseguire per valorizzarlo, perché inerisce alla condizione umana, la cui dignità si oppone alla precarietà, e le si oppone radicalmente.

La seconda risposta è addirittura ovvia. Il corpo elettorale ha ribadito che si possono adottare solo revisioni costituzionali specifiche, puntuali, relative ad una sola determinata materia, ad un singolo istituto. Quali, ad esempio: conformazione del Parlamento, (cioè monocameralismo o bicameralismo, e quale tipo di questa seconda conformazione); procedimento di formazione delle leggi; sistema delle fonti normative; sfiducia costruttiva; unicità o articolazione della giurisdizione; distribuzione dei poteri legislativi ed amministrativi tra stato e regioni. Che comunque la revisione è ammissibile soltanto se coerente, rigorosamente coerente con lo spirito della Costituzione, con il principio di fondo che la identifica. Se no, no. Del tutto consigliabile sarebbe, anche per soddisfare tale esigenza, un emendamento al procedimento di revisione costituzionale volto a mettere in sicurezza il testo della Costituzione dagli arbitrii delle maggioranze, elevando il quorum di validità delle deliberazioni in questa materia a due terzi dei membri di ciascuna Camera.

E all’ansia, tanto più alla perfidia e alle pulsioni più o meno perverse, la serietà, la saggezza, l’onestà intellettuale e morale deve rispondere riflettendo ed invitando a riflettere sul quarto di secolo di furiosa e scellerata delegittimazione della Costituzione, e ricordando ora e sempre che, in democrazia, vilipendere o eludere la volontà, la sovranità popolare è un crimine, è il crimine supremo.