ATTACCO ALLO STATO DI DIRITTO

Il mio lavoro è proteggere l’America. Ed è esattamente quello che farò. Le persone possono attribuire tutte le intenzioni che credono, ma io ho giurato di difendere la Costituzione. Ho messo la mano sulla Bibbia e ho preso questo impegno solenne. E farò esattamente quello che ho giurato di fare.
George W. Bush nella conferenza stampa del 6 marzo 2003

1.Nel momento in cui scriviamo non sappiamo come la `crisi irachena’ andrà a finire: se (per quanto ancora) avrà miracolosamente successo l’azione di differimento del `fronte del rifiuto’ che salda la maggioranza dell’attuale Consiglio di Sicurezza al Vaticano e alle piazze pacifiste del mondo, o prevarrà invece la determinazione di Bush a occupare militarmente la regione per impadronirsi degli immensi giacimenti petroliferi iracheni ad ogni costo e con ogni mezzo (preferibilmente con le armi, in modo da remunerare il complesso militare-industriale e il suo indotto finanziario e da testare i nuovi sistemi d’arma in vista della prossima campagna `preventiva’) e puntare poi sull’Iran. Altre cose invece le conosciamo già, in quanto si tratta di risultati acquisiti della strategia bellica americana varata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e, più in generale, delle conseguenze di due fattori distinti ma tra loro connessi: la nuova fase di guerra permanente inaugurata dalla prima Guerra del Golfo (sul piano esterno) e la militarizzazione delle pratiche di repressione del dissenso sociale e dei movimenti migratori (sul piano interno).
Dietro le quinte dello scontro tra gli Imperi del Bene e del Male e della `guerra al terrorismo’ e all’immigrazione `clandestina’, c’è un mondo nascosto che coinvolge le forme del governo politico e del controllo sociale nelle società occidentali e che vede una drastica compressione degli spazi di libertà, frequenti violazioni delle garanzie giuridiche, modificazioni striscianti delle Costituzioni: un mondo che raramente conquista gli onori della cronaca, fatto di leggi incostituzionali, di circolari e regolamenti riservati, di vertici informali, di prassi investigative irregolari, di violazioni delle tutele, dei diritti e delle libertà fondamentali, di nuove pratiche di controllo e di discriminazione, di tribunali speciali, di detenzioni senza incriminazioni e senza processo, di processi segreti e senza difesa, di torture, di scomparse misteriose, persino di assassini legalizzati.
Raramente questo `mondo nascosto’ arriva in superficie e a conoscenza del grande pubblico. Negli Stati Uniti è accaduto una prima volta lo scorso 14 ottobre, quando il settimanale «The Nation» pubblicò con grande evidenza una lettera aperta al Congresso nella quale si affermava che «la questione più importante tra quelle sollevate dalla guerra» riguarda i pericoli che incombono sul sistema democratico degli Stati Uniti, seriamente minacciato da un «nuovo Leviatano» nel quale «il Dipartimento della Giustizia si arroga il diritto di imprigionare cittadini americani senza limiti di tempo per il solo fatto che un burocrate del Pentagono li abbia etichettati come «combattenti nemici”»(1). È successo ancora di recente (lo scorso 25 febbraio) quando l’American Civil Liberties Union – una delle più importanti organizzazioni statunitensi di giuristi democratici, sulla breccia dal 1920 – ha comprato una pagina del «New York Times» per lanciare l’allarme sulla minaccia rappresentata dalle nuove misure `anti-terrorismo’ invocate dal ministro della Giustizia John Ashcroft (in base alle quali gli investigatori potrebbero svolgere perquisizioni e indagini bancarie senza mandato e il governo potrebbe espellere o – nel caso di cittadini americani – privare della cittadinanza chiunque venga semplicemente accusato di terrorismo). Ma di tutto ciò di norma non ci si occupa, forse perché il grado di insicurezza collettiva è ormai talmente elevato, che la rimozione delle fonti di rischio funziona come una contromisura indispensabile alla sopravvivenza quotidiana.
In questo contesto, e pur in presenza di vistose rotture della legalità e di gravi violazioni dello Stato di diritto, si rivela singolarmente arduo generalizzare la consapevolezza del crescente rischio di regressione autoritaria che già oggi i paesi occidentali corrono e che si aggraverebbe esponenzialmente ove la nuova guerra contro l’Iraq scoppiasse, alimentando la tendenza alla criminalizzazione del dissenso sociale e politico e inasprendo – forse al di là dell’immaginabile – le tensioni tra il Nord e il Sud del mondo. Come si cercherà di mostrare in queste pagine, si tratta di un rischio talmente elevato, da autorizzare un inquietante parallelismo storico. Si ha l’impressione di ritrovarsi, settant’anni dopo, al cospetto di un passaggio analogo a quello verificatosi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso: dinanzi a una seconda `grande trasformazione’ delle società occidentali, per effetto della quale le classi dominanti tornano a fare massicciamente ricorso al potere politico, riaffidando agli apparati coercitivi dello Stato il compito della regolazione autoritaria dell’economia e del conflitto sociale e alla forza militare la funzione di arbitro delle relazioni internazionali.
Non ci è possibile approfondire questo discorso, che suggeriamo qui come semplice ipotesi di lavoro (2). L’argomento del nostro discorso è molto meno complesso. Nostro intento è portare alla luce qualche elemento di quel `mondo nascosto’ cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi, e che, insieme alla guerra, rischia di decretare la fine della fase democratica del capitalismo iniziata nel 1945 ed entrata in sofferenza nel 1989-1991 con la definitiva conclusione della Guerra Fredda. A questo scopo ci proponiamo di fornire un primo, sommario e inevitabilmente lacunoso resoconto delle principali violazioni, nascoste o flagranti, della legalità costituzionale verificatesi in alcuni paesi occidentali nel periodo successivo all’11 settembre del 2001.
2. Conviene cominciare dall’evidenza meno soggetta a controversie, la vicenda dei circa 650 Talibani deportati nella base navale statunitense di Guantanamo Bay, a Cuba. Sull’argomento i lettori di questa rivista sono già stati informati dall’appassionato intervento di Judith Butler(3). Si può aggiungere qualche dettaglio in ordine alle condizioni della loro detenzione. Le celle di Guantanamo sono piccolissime e non offrono protezione dalle intemperie. Gli Stati Uniti, che non hanno formalizzato capi d’accusa sul conto dei prigionieri, negano l’accesso alle autorità consolari, ai familiari e alla rappresentanza legale. Nonostante le pressioni di altri paesi e le richieste della Croce Rossa internazionale e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, continuano nella pratica di interrogatori illegali, in assenza di difensori, minacciando di concludere queste `inchieste’ con sentenze capitali senza appello. Per di più (lo si è appreso in questi giorni da un’inchiesta del «New York Times»), Guantanamo non è la sede degli interrogatori più estremi, in quanto i prigionieri più pregiati sono interrogati, direttamente dalla Cia, nelle basi di Diego Garcia (Oceano Indiano) e di Bagram (Afghanistan), nelle quali gli interrogatori si protraggono ininterrottamente per giorni e notti, in assenza di luce e con escursioni termiche di quaranta gradi centigradi.
Violazioni inaudite, incompatibili con le Convenzioni internazionali e con i principi base della Costituzione americana. Ma se ci si fermasse qui, queste denunce sortirebbero un paradossale effetto legittimante poiché suggerirebbero che quanto avviene nelle basi militari dislocate al di fuori del territorio degli Stati Uniti sia un’eccezione alla regola del rispetto dei diritti e delle garanzie. Avviene esattamente il contrario. Il timore enunciato da Butler – che Guantanamo diventi un modello – è più che fondato, e del resto il trattamento dei prigionieri da parte delle autorità americane rimanda a una serie di provvedimenti legislativi che hanno già stravolto le norme fondamentali dello Stato di diritto, a cominciare dal Bill of Rights.
Tre giorni dopo gli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono, il Congresso vota, quasi all’unanimità, una risoluzione che conferisce a Bush il potere illimitato di usare la forza «necessaria e opportuna» contro Stati, organizzazioni e individui coinvolti negli attentati e in altre attività terroristiche (4). Se non proprio l’inizio (numerose norme `anti-terrorismo’ – in realtà mirate contro il movimento no global – sono state varate prima dell’11 settembre 2001), è certamente un passaggio cruciale di una deriva tesa all’instaurazione di un vero e proprio `Stato d’eccezione’. Da questo momento l’attività normativa dell’Amministrazione Bush sul terreno della `guerra’ interna ed esterna al terrorismo si fa sempre più intensa e tradisce una crescente insofferenza per il principio della separazione dei poteri. Il 20 settembre il Segretario alla Giustizia Ashcroft accorda all’Ins (la potente agenzia federale incaricata delle procedure di immigrazione e naturalizzazione) la facoltà di tenere «gli stranieri» in carcere, senza accuse, per 48 ore o, in circostanze «straordinarie», per un non meglio precisato «ragionevole periodo di tempo addizionale» (5). Un secondo regolamento del ministro (emanato il 31 ottobre) consente agli agenti federali, in violazione del VI Emendamento della Costituzione, di intercettare segretamente e senza mandato le comunicazioni tra imputati e avvocati. Nel frattempo (approvato dal Congresso il 26 ottobre, senza discussione e, anch’esso, a schiacciante maggioranza) vede la luce il Patriot Act (6), pilastro fondamentale della nuova legislazione d’emergenza.
Il nuovo reato di «terrorismo interno» (Art. 802) è definito in termini talmente vaghi (vi rientrano tutti i reati non a scopo di lucro in cui si sia fatto uso di «armi o dispositivi pericolosi» nonché gli atti che «appaiono tesi a influenzare la politica di un governo con l’intimidazione o con la coercizione» purché, anche involontariamente, «mettano in pericolo la vita umana in violazione del diritto penale») da concedere alle autorità un potere di controllo pressoché illimitato nei confronti di immigrati e oppositori politici (7). È prevista la detenzione illimitata e senza formali accuse di cittadini e non-cittadini (per i quali la nuova legge introduce la detenzione obbligatoria sino all’espulsione anche per una banale violazione delle leggi sull’immigrazione). Sulla base di semplici sospetti (il più delle volte riferiti a un identikit della persona «a rischio» tracciato sull’idealtipo dell’immigrato di religione musulmana) può capitare (Art. 412) di finire in carcere per sette giorni (estendibili fino a sei mesi) senza l’autorizzazione del giudice. Violando il I e il VI Emendamento, la legge (Art. 411) introduce un test d’ingresso su base ideologica e consente all’Fbi di accedere senza controllo né mandato alle comunicazioni telefoniche e di posta elettronica e di violare impunemente le garanzie della difesa nel processo penale. Si tratta di restrizioni della libertà del tutto simili a quelle disposte nel famigerato McCarran-Walter Act, la legge che nel 1952 vietò l’ingresso negli Usa agli stranieri membri di partiti o movimenti comunisti. Al tempo stesso vengono tolti di mezzo tutti quei `controlli e contrappesi’ all’esercizio del potere esecutivo che furono introdotti nel 1974, allorché si scoprì che l’Fbi e altre agenzie di intelligence avevano sottoposto illegalmente a spionaggio 10.000 cittadini americani, tra cui Martin Luther King.
Non soddisfatto di avere usurpato prerogative essenziali della magistratura, il 13 novembre Bush vara un secondo micidiale provvedimento, il President Issues Military Order, che, usurpando anche i poteri del Congresso (unico legittimato a creare «tribunali inferiori alla Corte Suprema»), fornisce una base `giuridica’ alle atrocità di Guantanamo ma ha pesanti conseguenze pure all’interno degli Stati Uniti. Questa nuova legge dà al presidente il potere di istituire e formare tribunali militari speciali competenti in materia di terrorismo e interamente soggetti a una catena di comando che riconduce al presidente stesso, in quanto comandante in capo delle forze armate. Le violazioni delle garanzie giuridiche già sancite nel Patriot Act vengono enormemente aggravate. Basti pensare che l’imputato deve esser difeso da un militare designato dal tribunale e che a ogni altro eventuale difensore viene negato l’accesso alle carte e a parte delle udienze. Il presidente ha il potere di decidere chi sarà giudicato da questo sistema, di stabilire le regole del procedimento, di nominare giudici, pubblici ministeri e avvocati, e di determinare le pene per i condannati. Come il più assoluto dei sovrani, egli si è disfatto di qualsiasi controllo di legalità sulle sue azioni.
Potremmo continuare a lungo. Altri 23 tra «ordini esecutivi» e «regolamenti provvisori» hanno ampliato a dismisura i poteri extra-legali del governo fino allo scorso novembre (8), quando Bush vara il progetto del Total Information Awareness System (una gigantesca rete di spionaggio interno che dovrà monitorare movimenti, comunicazioni e transazioni «sospette») e firma lo Homeland Security Act con cui crea il nuovo mega-Dipartimento della Sicurezza nazionale, terzo per budget e dimensioni con i suoi 35 miliardi di dollari e 170.000 dipendenti senza diritti sindacali, ai quali è fatto divieto di denunciare ogni eventuale abuso dei superiori (9). Ma per farsi un’idea precisa di tutta questa normativa, occorre a questo punto volgersi alle sue conseguenze materiali.
Subito dopo l’11 settembre l’Fbi e l’Ins scatenano la caccia al terrorista. «Gli Stati Uniti – scrive in quei giorni Christopher Bollyn, dell’«American Free Press» – stanno diventando una `repubblica delle banane’ dove la gente `scompare’: un fenomeno che tutti noi abbiamo visto nelle dittature dell’America Latina negli anni Settanta e Ottanta, con il sostegno, tra parentesi, del governo degli Stati Uniti» (10). Il «Washington Post» conferma: «Sia i giuristi che i cittadini dicono di non ricordare un altro periodo in cui tante persone siano state arrestate e imprigionate senza vincolo d’accusa, particolarmente per reati minori, in assenza di connessioni con il caso di cui ci si sta occupando» (11). I dipartimenti di polizia (con massicci supporti operativi del Dipartimento della Giustizia e l’assistenza tecnica dell’Fbi) riesumano gli `squadroni rossi’, unità di polizia celebri ai tempi di Edgar Hoover per l’attività di spionaggio, infiltrazione e repressione delle organizzazioni politiche di sinistra (12). La gente è incoraggiata alla delazione. Oltre 200.000 segnalazioni di comportamenti `sospetti’ vengono raccolte dall’Fbi. Ne fanno le spese, tra gli altri, una studentessa del Technical Community College di Durham, torchiata per 45 minuti perché nella sua stanza qualcuno ha visto un poster critico nei confronti dell’ex governatore del Texas George W. Bush e della sua nota predilezione per la sedia elettrica; un attivista di un gruppo di protesta contro le sanzioni all’Iraq, indagato a Chicago dalla polizia e da un ispettore postale perché ha chiesto francobolli senza l’aquila americana per una circolare da inviare a 4000 iscritti della sua associazione; un pensionato di San Francisco, interrogato per ore sulle sue posizioni politiche per avere confidato agli amici in palestra i propri dubbi sulla guerra in Afghanistan.
Stando alle denunce di Amnesty International e del Center for Constitutional Rights (13) almeno duemila persone (erano 1.147 già il 5 novembre 2001) sono state arrestate sulla base di semplici sospetti, senza mandato e il più delle volte senza addebiti penali; non è stata fornita loro la motivazione dell’arresto né la possibilità di avvalersi di un difensore; spesso il luogo di detenzione non è stato rivelato nemmeno ai familiari; in molti casi sono trascorsi cinquanta giorni e in almeno un caso quattro mesi prima che il detenuto incontrasse un magistrato; molti detenuti sono stati tenuti in carcere per mesi sulla base di trasgressioni veniali delle leggi sull’immigrazione; per estorcere confessioni si è ricorso a interrogatori vessatori o `involontari’; senza base legale né la garanzia risarcitoria del mandato giudiziario di compensazione si sono confiscate le proprietà delle persone imprigionate; molti processi sono avvenuti in totale segretezza e talvolta se ne è negata l’avvenuta celebrazione. Gli ultimi episodi noti risalgono al dicembre 2002, quando la polizia di Los Angeles arresta, senza accuse né indagini, cinquecento, forse settecento immigrati musulmani presentatisi agli sportelli dell’Ins per mettersi in regola con le nuove leggi `anti-terrorismo’. E quando nel Texas quattro fratelli vengono accusati di finanziare il terrorismo per avere spedito computer e generici software verso uno «Stato canaglia» (14).
Non è ancora finita. Mentre la Corte Suprema dichiara costituzionale la legge californiana che prevede l’ergastolo alla terza condanna indipendentemente dalla gravità dei reati commessi e vengono resi noti i dati agghiaccianti della condizione dei minori nel sistema giudiziario degli Stati Uniti (250.000 adolescenti processati senza che le corti abbiano tenuto conto della loro età; 16.000 minori detenuti in carceri per adulti), per puro caso, il 10 febbraio scorso, un collaboratore del Center for Public Integrity (un’associazione impegnata nella difesa dei diritti civili) si imbatte nel testo di un nuovo disegno di legge (il Domestic Security Enhancement) di cui il dipartimento della Giustizia ha sempre negato l’esistenza. Tra i punti più scabrosi del progetto, subito soprannominato Patriot Act II, sono l’ulteriore ampliamento del concetto di «enemy combatant» (quindi dell’insieme dei reati punibili con la pena capitale e dell’area di legalizzazione degli arresti segreti, per i quali si rovescia l’onere della prova); la legittimazione di schedature di cittadini incensurati in assenza di mandato; la facoltà, per il governo, di espellere l’immigrato accusato – sulla base di semplici sospetti – di terrorismo o di fiancheggiamento (se l’accusato è cittadino, lo si priva della cittadinanza). Il commento dell’American Civil Liberties Union è di quelli che fanno riflettere: per la prima volta dai tempi della Guerra civile, gli Stati Uniti legalizzano la violazione dell’habeas corpus (15).
3. L’11 settembre vede anche l’avvio di un’offensiva diplomatica americana nei confronti degli alleati, per convincerli ad allinearsi alla strategia `anti-terrorismo’ adottata dalla Casa Bianca. L’Europa è ovviamente tra gli interlocutori chiave, e il 16 ottobre del 2001 Bush invia a Romano Prodi una lunga lettera che meriterebbe un esame approfondito. Limitiamoci all’essenziale.
Il progetto di cooperazione `anti-terrorismo’ esposto dal presidente americano annovera 47 punti, ma ruota intorno a tre cardini: 1. agevolazione dello scambio di informazioni sulle persone (compresi i dati bancari), per il quale si chiede di autorizzare procedure informali (richieste orali); 2. accelerazione dei procedimenti di estradizione (ai quali si chiede di preferire provvedimenti di «espulsione o deportazione» nel caso di «violatori di status, criminali e soggetti inammissibili»); 3. coordinamento della difesa delle frontiere esterne. La lettera trascura il fatto che gli Stati Uniti non dispongono di leggi sul trattamento dei dati personali a salvaguardia della privacy; non fa menzione delle Convenzioni internazionali e delle norme costituzionali sul diritto d’asilo, contro la tortura e la pena di morte; confonde di continuo terrorismo, criminalità e immigrazione, oltre ad assumere come ovvia una circostanza inesistente (almeno sinora), e cioè che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano frontiere comuni (16). Ciò nonostante, la Commissione europea promette che la maggior parte delle richieste sarà esaudita. Dal 26 ottobre del 2001 (lo si è appreso nel febbraio successivo) ha luogo una fitta serie di incontri riservati, di «natura confidenziale», tra funzionari americani, canadesi ed europei, in occasione dei quali vengono costituiti gruppi di lavoro congiunti sui temi dell’immigrazione, dell’asilo, dei piani di transito, del controllo delle frontiere, del traffico di stupefacenti e del crimine informatico (17). Il risultato di questi contatti (emblematici del generale processo di «governamentalizzazione» della sovranità, che vede il progressivo esautoramento dei Parlamenti) può essere sintetizzato dicendo che l’Unione europea ha fatto propria la dottrina Bush della `guerra contro il terrorismo’, in quanto ne ha introiettato i due caposaldi: l’idea che la minaccia terroristica sia grave al punto di giustificare la sospensione dei diritti fondamentali, e la propensione ad assimilare (sulla base di presupposti razzisti) lotta al terrorismo e gestione dei movimenti migratori.
Di tale orientamento fanno fede numerosi provvedimenti assunti in sede comunitaria, a cominciare dal mandato d’arresto europeo (che estende di fatto all’intero territorio dell’Unione la competenza delle procure dei singoli Stati e sopprime il sistema di controllo previsto dalle procedure di estradizione senza che si sia messa mano all’unificazione dei codici) (18) e dalla Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo (13 giugno 2002), che contempla una definizione dei «reati terroristici» (Art. 1) comparabile – per ampiezza e vaghezza – a quella fornita dalla più recente legislazione statunitense. Viene considerato terroristico, per fare un esempio, qualsiasi «atto intenzionale», teso a destabilizzare le strutture «economiche o sociali di un paese», che determini la distruzione di «proprietà private» e con ciò causi «perdite economiche considerevoli» (19). Non occorre indossare lenti ideologiche per capire come questa definizione consenta di criminalizzare qualsiasi manifestazione di dissenso in occasione della quale si verifichino scontri di piazza. Se la normativa europea fosse stata tradotta in legge prima del G8 di Genova, sarebbe stato possibile incriminare per `reati terroristici’ tutti i manifestanti fermati dalle forze dell’ordine. E del resto non è casuale che la maggioranza dei governi europei si sia opposta a una clausola che neutralizzasse il potenziale repressivo della Decisione impedendo di usarla contro quanti «agiscono al fine di preservare o rafforzare i valori democratici ed esercitano il diritto di manifestare le proprie opinioni, anche ove, nell’esercizio di tale diritto, abbiano commesso reati» (20).
Non sorprende, in questo clima, che nei paesi europei si siano adottati provvedimenti e comportamenti molto simili a quelli messi in atto dal governo americano. Consideriamo qui due scenari, l’Inghilterra di Blair e l’Italia di Berlusconi. Benché si tratti di un campione sospetto (di due paesi che in questa fase fanno a gara nel mostrarsi proni ai desiderata della Casa Bianca), sarebbe agevole confutare l’illusione che, per quanto riguarda la lotta al `terrorismo interno’, nel resto del continente ci si muova in controtendenza (21).
4. L’esame della principale legge inglese contro il terrorismo varata dopo l’11 settembre potrebbe ridursi a una semplice osservazione. L’Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001, entrato in vigore il 14 dicembre 2001, è sostanzialmente la copia fotostatica del Patriot Act americano. Stessa logica emergenzialista («il governo ritiene che sussiste uno stato di pubblica emergenza […] in quanto l’11 settembre pone una sfida diretta al Regno Unito»), identica la richiesta di conferire valore di legge all’arbitrio dell’esecutivo, nella persona del ministro degli Interni David Blunkett. Il quale, in base alla IV sezione della legge, ha ora il potere di definire un individuo «terrorista internazionale» per il semplice fatto di nutrire «sospetti» nei suoi confronti e di «credere ragionevolmente» che la sua presenza sul territorio del Regno costituisca una minaccia per la sicurezza nazionale.
Ne segue un enorme ampliamento dei poteri che, come negli Stati Uniti, sbriciola i fondamentali diritti di libertà sanciti nella Convenzione europea per i diritti dell’uomo. A farne le spese sono in primo luogo gli immigrati, vero obiettivo della `guerra preventiva’ per la `sicurezza nazionale’. La legge consente di tenere in carcere a tempo indeterminato gli `stranieri’ sulla scorta di sospetti e `prove’ segrete, senza formulazione di accuse né processo; e nega la possibilità di impugnare le decisioni prese in violazione dei diritti di profughi e richiedenti asilo. Ma ad essere minacciati sono tutti i residenti sul territorio britannico, in quanto la semplice accusa di terrorismo determina l’accesso a un «sistema di giustizia penale ombra» (22) nel quale è lecito negare a detenuti e avvocati qualsiasi informazione sulle motivazioni dei provvedimenti assunti. L’idea è che in tempi normali i diritti sono una bella cosa, ma nei momenti difficili si trasformano in lussi superflui. Così si spiega che la richiesta del rispetto dell’habeas corpus e delle fondamentali garanzie giuridiche sia stata liquidata da Blunkett come frutto di una «visione del mondo `libertaria’, superficiale e astratta, incompatibile con la tutela della sicurezza della nazione in un momento di emergenza» (23).
Risultato? Stando agli ultimi dati, la politica «anti-terrorismo» inglese produce molti arresti (304 casi documentati dall’11 settembre 2001) a fronte di poche incriminazioni (40), in minima parte (tre casi in tutto, peraltro riferiti ad associazioni che non hanno relazioni con gruppi terroristici islamici) connesse a reati di terrorismo (24). Ma questo imbarazzante insuccesso non induce il governo alla cautela. Dall’11 settembre di due anni fa si susseguono retate, arresti senza imputazioni, gravi violazioni dei diritti umani nei confronti dei detenuti. Per darne un’idea, un rapporto di Amnesty International redatto lo scorso settembre ha reso noto il caso di due detenuti (Lofti Raissi, algerino, arrestato su richiesta delle autorità statunitensi che ne richiedono l’estradizione senza addurre prove della sua colpevolezza; Mahmoud Abu Rideh, profugo palestinese, residente in Inghilterra dal 1977, rinchiuso senza incriminazioni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh e poi internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Broadmoor) sui 36 riguardo ai quali si è riusciti ad ottenere informazioni (25). Quel che più preoccupa è lo scontro tra l’esecutivo e la magistratura, nel quale il governo ostenta indifferenza e disprezzo per i pronunciamenti dei giudici. Il «Guardian» di Londra ha rivelato che l’anno scorso tre magistrati della Commissione speciale di appello per l’immigrazione hanno dichiarato illegale perché discriminatoria e incompatibile con le convenzioni europee sui diritti umani la detenzione di nove stranieri (ovviamente musulmani) decisa (sulla scorta di semplici sospetti) in base al Terrorism Act. Il ministro ha annunciato ricorso, e si è ben guardato dallo scarcerare i detenuti (26).
In questo clima non stupisce che venga affermandosi un processo di militarizzazione della società nel quale si inscrivono il rapido aumento della popolazione carceraria (passata negli ultimi tre anni da 53.000 a oltre 70.000 unità), l’imposizione del coprifuoco per i minori in diversi centri urbani, il tendenziale abbandono del procedimento penale in favore di procedure informali e punizioni sommarie (interrogatori segreti, fermo di polizia prolungato, detenzione amministrativa) e, da ultimo, il dispiegamento di carri armati nella caccia al terrorista tra aeroporti e autostrade (27). Le più elementari garanzie appaiono vincoli incompatibili, al punto che le autorità inglesi stanno considerando l’opportunità di proporre un emendamento alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo che cancelli il divieto di «trattamenti o punizioni inumani o degradanti» e legittimi in sostanza la tortura (28). Del resto, perché andare tanto per il sottile visto quel che succede a Guantanamo, dove sono detenuti anche cittadini inglesi della cui sorte il governo Blair si è sempre scrupolosamente disinteressato? (29). Così, mentre da una parte si provvede a militarizzare le frontiere (la compagnia Eurotunnel, responsabile del centro di Sangatte, ha appaltato la direzione della sicurezza a un generale inglese a riposo e ha investito oltre sette milioni di euro nel 2002 in misure «antipenetrazione» che vanno dalle telecamere a infrarossi alle reti munite di lame da rasoio, alle sonde al carbonio), dall’altra si decreta l’abrogazione del diritto d’asilo (sostituito dal respingimento dei profughi nelle cosiddette `zone sicure’ dell’Onu: la Turchia, l’Iran, la Somalia).
5. La situazione italiana è meno grave, almeno a prima vista. Il governo non ha emanato un testo unico contro il terrorismo, ragion per cui le forzature e le violazioni della legalità da parte delle autorità politiche e di polizia, che pure non mancano, sono in questo caso meno evidenti. A ciò si aggiunge il fatto che, nonostante gli incessanti attacchi lanciati dal governo contro la magistratura, quest’ultima è riuscita sinora a difendere la propria autonomia e indipendenza e a svolgere nella gran parte dei casi la funzione di garanzia che la Costituzione le assegna. Ciò nondimeno, non mancano motivi di seria preoccupazione, sia per quanto attiene alle manifeste propensioni autoritarie dell’attuale esecutivo, sia in relazione al prevedibile deteriorarsi del clima sociale e politico del paese in conseguenza dell’eventuale inizio della guerra in Iraq.
Il 27 gennaio scorso il ministro degli Interni Pisanu è stato ascoltato dalle commissioni Affari costituzionali e Difesa della Camera in seduta congiunta. Oggetto dell’audizione, il fenomeno del terrorismo in Italia. Nel contesto di un resoconto in gran parte scontato, due affermazioni appaiono significative. La prima suonerebbe comica, se non fosse una penosa testimonianza della tradizionale vocazione al servilismo di ampi settori del nostro ceto politico. Con malcelata soddisfazione il ministro ha riferito che «solo qualche giorno fa, l’Attorney General degli Stati Uniti d’America», cioè quel John Ashcroft che non lascia passar giorno senza attaccare le libertà e i diritti civili sanciti dalla Costituzione americana, «ha dato pubblicamente atto al nostro paese di aver assunto «un ruolo di leadership» nella lotta al terrorismo». Il secondo passaggio merita più attenzione. Affrontando la questione del terrorismo internazionale, Pisanu ha dichiarato che l’«azione di contrasto» dello Stato su questo terreno si è avvalsa, «oltre che dei tradizionali strumenti informativi ed investigativi, anche della più ampia gamma di istituti introdotti con la normativa antiterrorismo del 2001» (30).
A quali `istituti’ pensava il ministro? Di sicuro, alle circolari con cui nell’ottobre del 2001 il ministero della Giustizia ha imposto la censura sulla posta e la detenzione «di alta sicurezza» agli oltre 10.000 detenuti provenienti dai paesi islamici (31). Con ogni probabilità – anche se si tratta di un provvedimento molto più recente – il riferimento concerneva anche la nuova versione dell’Art. 41 bis del codice penale, che ha esteso il «carcere duro» a «terroristi» e «trafficanti di esseri umani». Ma è certo che Pisanu alludeva in particolare al dl 374/2001 (Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale) che ha introdotto la nuova figura delle «associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale», disciplinata, in via definitiva, dal nuovo Art. 270 bis del codice penale. In effetti, la riformulazione di questa famosa e famigerata norma ha dato vita a uno strumento da molti ritenuto indispensabile nel nuovo scenario mondiale, in quanto il testo precedente tutelava soltanto l’ordine costituzionale italiano e non era applicabile ad organizzazioni interessate all’«eversione» dell’ordinamento di altri paesi (32). Dopodiché va segnalato che a tale ampliamento non si accompagna soltanto, come di questi tempi è ovvio, la persistenza della logica emergenzialista fondata sull’uso e abuso dei reati associativi, ma anche (grazie alla distinzione di principio tra il reato di «eversione dell’ordine democratico» e quello di «terrorismo», che la norma si guarda bene dal definire) la possibilità di classificare e perseguire come terroristica qualsiasi forma di violenza politica, compresa la resistenza a regimi repressivi o dispotici (non è un caso che l’elenco delle organizzazioni terroristiche redatto e periodicamente aggiornato in sede europea dopo l’11 settembre includa il Pkk dei curdi e le Forze unite di autodifesa della Colombia). Com’è stato osservato proprio a questo riguardo, «la «guerra al terrorismo” conduce alla criminalizzazione dell’idea stessa di liberazione e di autodeterminazione» (33).
Al pari della normativa europea (e anzi ancor più di questa, che almeno contiene una definizione dei «reati terroristici»), la legge italiana ha un campo di applicazione virtualmente infinito, suscettibile di coprire ogni atto di dissenso politico violento. Ma per quanto siano a rigore le uniche norme «anti-terrorismo» varate in Italia dopo l’11 settembre, quelle sin qui considerate non esauriscono in realtà l’insieme degli strumenti attualmente in uso nel nostro paese ai fini della `guerra contro il terrorismo’. Purché non ci si lasci fuorviare dalle apparenze e dalle formule propagandistiche, è facile intuire che un formidabile strumento di repressione e criminalizzazione sul versante strategico dell’immigrazione è costituito, in questo contesto, dalla Legge Bossi-Fini. Non è possibile soffermarsi qui analiticamente sugli innumerevoli aspetti di incostituzionalità di questa legge (peraltro presenti, in parte, già nella normativa precedente, varata dal centro-sinistra). Occorre concentrarsi sul suo carattere repressivo e liberticida (34).
La legge crea ampie zone di arbitrio (sia nelle questure che nei cosiddetti centri di permanenza temporanea) in cui le forze dell’ordine possono muoversi in assenza di controlli da parte dell’autorità giudiziaria, alla quale di fatto si sostituiscono. La pratica della detenzione amministrativa e delle espulsioni immediate permette di prendere provvedimenti limitativi della libertà personale senza l’intervento della magistratura previsto dalla Costituzione. A ciò si aggiunge un uso quanto meno improprio dello strumento processuale (con un disinvolto ricorso all’arresto, alla custodia cautelare e al giudizio direttissimo) che autorizza a parlare del progressivo affermarsi di un diritto penale speciale per i migranti che accedono o si avvicinano al territorio italiano. Se questo è vero, possiamo dire che la differenza tra la nuova legislazione italiana sull’immigrazione e le leggi `anti-terrorismo’ varate negli Stati Uniti e in Inghilterra dopo l’11 settembre è in buona parte puramente nominale. Nel senso che mentre gli americani e gli inglesi non hanno remore a dichiarare la logica razzista della `guerra contro il terrorismo’ (per cui inseriscono la gestione repressiva dell’immigrazione nel quadro della nuova legislazione sicuritaria), il nostro governo si muove più cautamente (cioè ipocritamente), distinguendo in apparenza gli ambiti di intervento. Ma se guardiamo i fatti, le differenze dileguano.
Dall’11 settembre si susseguono controlli e rastrellamenti etnici (i cosiddetti `pattuglioni’) a Roma, Milano, Bologna e in molte altre città italiane mèta di immigrazione di origine asiatica o mediorientale (35). L’ultimo episodio è di questi giorni. A Milano decine di immigrati in attesa di regolarizzazione sono stati prelevati da casa o dal posto di lavoro senza preavviso e in poche ore imbarcati su un aereo con provvedimenti di rimpatrio coatto non motivati (36). Sono già migliaia i profughi pakistani arrestati o rimpatriati perché in possesso di ritagli di giornale o cartine topografiche; centinaia i musulmani inquisiti per reati associativi, puntualmente additati sulla stampa come `terroristi’, incarcerati in base a labili indizi, poi – verificata l’inconsistenza degli addebiti – scarcerati di nascosto e subito rimpatriati per evitare che la loro vicenda dia adito a spiacevoli incidenti. Ci si rammenta facilmente del caso di Bologna (agosto 2002), non occultabile perché tra i cinque arrestati (sospettati di preparare un attentato nella chiesa di San Petronio perché «sorpresi» a discorrere del crocifisso ligneo posto alle spalle di un altare) vi era un cittadino italiano, in realtà intento a illustrare paternità e valore dell’opera d’arte. Ma casi del genere (molto più tristi per la lunga detenzione dei malcapitati e per il fatto di concludersi con l’espulsione dall’Italia) si ripetono.
A Roma quattro cittadini afghani vengono arrestati nel febbraio del 2002 perché trovati in possesso di una cartina della città in cui sono evidenziati istituzioni e luoghi di culto cattolici. Si scoprirà che si tratta di profughi intenzionati a chiedere asilo, e che la cartina era stata segnata da volontari della Caritas ai quali si erano rivolti per trovare alloggio. Un’identica vicenda ha luogo a Trieste, con la differenza che in questo caso i migranti afghani fermati vengono rimpatriati nel loro paese ancora in guerra (37). A Gela l’11 settembre del 2002 quindici pakistani, a bordo di un mercantile, vengono trovati in possesso di documenti irregolari; arrestati con grande clamore («Scoperta cellula di Al Qaeda») e detenuti per mesi a Caltanissetta, sono scarcerati quando emerge che si tratta di migranti in cerca di lavoro. Il loro avvocato accusa le autorità italiane di «avere montato deliberatamente una spettacolare messinscena nell’anniversario delle Twin Towers» (38).
Da ultimo, alla fine del gennaio scorso scoppia il caso dei 28 pakistani di Napoli, «nascosti» in una casa di proprietà del capoclan della camorra Luigi Giuliano a Forcella. Stando ai giornali, gli inquirenti vi trovano di tutto: tracce di esplosivo, documenti, e naturalmente `mappe’, in base alle quali gli inquirenti ipotizzano che «i terroristi pachistani volevano colpire un ammiraglio inglese» (39). Il caso resta sotto i riflettori finché, il 12 febbraio, le accuse cadono e i 28 pakistani vengono scarcerati. La «Stampa» di Torino relega la notizia in seconda pagina, in taglio basso, perché l’apertura del giornale è riservata a un’altro scoop: «Allarme bioterrorismo anche in Italia».
Se si legge la Relazione sulla situazione e sulle tendenze del terrorismo in Europa relativa al periodo compreso tra l’ottobre del 2001 e l’ottobre scorso, si scopre che il dossier sul terrorismo internazionale in Italia è di gran lunga il più ampio (40). Il motivo è che vi sono elencati (naturalmente senza rivelarne l’inconsistenza) anche i casi inventati come la bufala di San Petronio e la vicenda dei poveri pakistani di Gela. Non c’è da sorriderne. Tutto serve ad alimentare l’ossessione della minaccia terroristica e a giustificare la sistematica violazione dei diritti di migranti, profughi e richiedenti asilo.
Nemmeno in relazione a questi ultimi l’Italia si discosta dalla prassi adottata di recente dall’Inghilterra, con l’aggravante che il nostro paese è all’ultimo posto nell’Unione europea (meno di 10.000 riconoscimenti su un totale di 600.000) nella concessione dell’asilo politico e umanitario (41). Fece scalpore, lo scorso dicembre, il caso di Mohammad Said Al-Sahri, profugo politico siriano da vent’anni in Iraq e intenzionato a chiedere asilo al nostro paese, bruscamente rimpatriato dalla polizia insieme alla sua famiglia e con ciò esposto al rischio di una condanna a morte. Di lui non si è saputo più nulla. Ma anche a questo proposito sono molto più numerosi i casi di cui nessuno viene a conoscenza. È esemplare al riguardo quanto è avvenuto nel `centro di accoglienza’ allestito all’interno della zona militare dell’aeroporto di Lampedusa, dove centinaia di immigrati richiedenti asilo sono stati detenuti per lungo tempo in condizioni di pressoché totale indigenza, finché la gran parte di essi è stata rimpatriata prima ancora che la richiesta fosse stata presa in esame secondo le norme vigenti (42).
La violazione dei diritti dei profughi è sistematica. Anche nella delicata fase di identificazione, si registra la `collaborazione’ delle autorità consolari dei paesi di provenienza, secondo una prassi vietata da tutte le convenzioni internazionali (43). Si può dunque ben dire che il diritto d’asilo è una delle vittime illustri dell’11 settembre, al pari di tutti i diritti fondamentali dei migranti (44). Ma se questi ultimi – reclusi in massa nei centri di detenzione e nei penitenziari (un detenuto su tre nelle carceri italiane è `extracomunitario’ (45)) – sono le vittime privilegiate della `guerra al terrorismo’ condotta dalle nostre autorità, non sono tuttavia i suoi unici obiettivi. L’attacco alle garanzie giuridiche è generale. Stando all’allarme lanciato dall’associazione dei Giuristi democratici (46), l’arbitrio dilaga grazie allo smantellamento del principio dell’obbligatorietà promosso dall’indeterminatezza dei profili di reato disegnati nelle nuove norme. Sono sempre più frequenti anche nel nostro paese i casi di attività sotto copertura e di intercettazioni preventive, mentre si afferma la tendenza alla ri-militarizzazione delle forze di polizia. Come la tragica esperienza di Genova ha dimostrato, l’impunità delle forze dell’ordine è sistematicamente garantita dalla inadeguata conoscenza della catena di comando che ha condotto un’operazione di polizia in difesa dell’ordine pubblico. Gli abusi si moltiplicano nella fase delle indagini preliminari (in Italia non esiste un codice di conduzione degli interrogatori nelle stazioni di polizia, né vi è certezza della identificabilità dei soggetti che li conducono) e in carcere, dove è tanto più difficile garantire la regolarità dei trattamenti, in quanto il controllo è di fatto demandato allo stesso organismo penitenziario che dispone la custodia delle persone.
Il momento che viviamo è delicato. Il modello segregativo incarnato dal carcere accenna a diffondersi per il tramite dei Centri di permanenza temporanea (è di queste ore l’annuncio della decisione di costruirne altri 14), delle Comunità di recupero che si contendono una cospicua massa di denaro pubblico, dei `piccoli manicomi’ a cui si delega la controriforma degli ospedali psichiatrici. E se ancora il nostro paese non ha raggiunto la sinistra perfezione dell’archetipo americano e inglese, non mancano i segni premonitori di una tendenza. Gli arresti di Cosenza, nel novembre 2002, e la pubblicazione – per iniziativa della Digos di Genova – delle fotografie di due sindacalisti dei Cobas, additati come capi dei black bloc il 9 gennaio scorso (47), non possono essere archiviati come banali manifestazioni di leggerezza o di eccesso di zelo. Contro il movimento di opposizione alla `globalizzazione’ capitalistica non ci si è accontentati di usare il nuovo 270 bis del codice penale, ma, per la prima volta in Italia, si è anche ritenuto di indicare come addebito rilevante il «tentativo di sovvertire gli ordinamenti economici»: non è soltanto un tentativo di sacralizzare penalmente la struttura sociale esistente, sottraendola al diritto di critica, ma anche un trasparente richiamo alla nuova normativa europea contro il terrorismo che, come sappiamo, annovera tra i `reati terroristici’ anche gli atti tesi a «destabilizzare le strutture politiche, economiche o sociali di un paese».
6. Quelli passati qui in rassegna sono soltanto alcuni snodi cruciali dell’offensiva scatenata da taluni governi occidentali, con l’alibi della lotta contro il terrorismo interno e internazionale, contro il sistema di diritti e garanzie costituzionali nel quale risiede l’essenza dello Stato democratico. Si dovrebbe andare avanti nel resoconto, soffermarsi almeno su un altro scenario (l’Asia) meno conosciuto ma altrettanto drammatico. Basti considerare a questo riguardo un aspetto che ci chiama direttamente in causa. Tra gli effetti attesi di provvedimenti come il Patriot Act e il Crime and Terrorism Act vi è il soffocamento della libertà di parola tra i profughi che risiedono negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e questo può certamente considerarsi un regalo che i governi occidentali stanno facendo ai regimi dittatoriali post-coloniali di cui in passato hanno favorito l’insediamento (48). Lo stesso può dirsi in relazione al nuovo 270 bis del nostro codice penale, che – lo si è osservato – condanna come terrorismo l’opposizione politica «violenta» nei confronti di qualsiasi potere costituito, senza riguardo per le sue caratteristiche, cioè per la presenza o meno dei requisiti minimi di democraticità.
Ma è necessario concludere, rimandando ad altre occasioni un’analisi più ampia della materia. Come si diceva, si è inteso fornire un semplice resoconto fattuale, senza allegarvi considerazioni politiche. Un aspetto, tuttavia, deve essere subito sottolineato, se si vuole essere certi di collocare questi elementi in una prospettiva pertinente. L’ultimo anno e mezzo ha visto una decisa accelerazione del processo di militarizzazione delle società occidentali, coerente e rispondente alla militarizzazione delle relazioni internazionali, al ritorno della guerra come strumento privilegiato nei rapporti tra le principali aree geopolitiche. In tale contesto, il termine terrorismo è un operatore discorsivo cruciale in quanto consente l’unificazione del campo degli obiettivi interni ed esterni dell’intervento coercitivo (migranti e marginali, criminali, oppositori politici, `Stati canaglia’ e loro protettori) e quindi la polarizzazione di due ambiti speculari (amici vs. nemici) funzionale alla guerra. Ma proprio il nesso tra guerra e repressione suggerisce che tale processo non comincia l’11 settembre del 2001, bensì almeno dal momento in cui la fine dell’equilibrio bipolare riserva agli Stati Uniti l’iniziativa politica e militare in vista della definizione di un `nuovo ordine mondiale’ (49). Se coglie nel segno, tale considerazione impone almeno di nominare lo scenario che costituisce il vero sfondo dei processi evocati in queste pagine. Il compito è agevolato dal fatto che la leadership statunitense non perde occasione per puntualizzare che, al di là degli `Stati canaglia’, la minaccia è rappresentata dagli altri poli di potenza mondiale in via di costituzione: l’Europa (sempre meno affidabile dopo la creazione dell’euro), la Russia, l’India e soprattutto la Cina (50). Da questo punto di vista nulla appare più fuorviante, per quanto oggi è dato intuire, che drammatizzare la discontinuità tra il Novecento e il nuovo secolo: se la storia del Xx secolo ha ruotato intorno al conflitto Est-Ovest (senza che ciò escludesse, ovviamente, i conflitti tra Nord e Sud), quest’asse promette di rimanere cruciale ancora per molto tempo nel xxi secolo, pur avendo relegato sullo sfondo – almeno per l’immediato – la contraddizione tra il mondo capitalistico e il pericolo socialista.
Questo è lo scenario sullo sfondo del quale si colloca il processo di restrizione degli spazi democratici nelle nostre società: è bene saperlo se si vuole che l’analisi del presente non si risolva in un’inerte ricognizione dei dati di fatto ma aiuti in qualche modo l’azione politica. Dal riferimento del discorso sulla regressione autoritaria delle nostre società allo scenario geopolitico generale discendono infatti due conseguenze rilevanti. La prima è che, nella misura in cui trova la propria ragion d’essere nella competizione strategica tra gli Stati Uniti e le altre potenze virtualmente globali, il processo di militarizzazione delle società occidentali non costituisce un’`emergenza’ di breve periodo né appare destinato a una imminente inversione di tendenza. Esso dev’essere focalizzato in relazione a una nuova fase delle relazioni internazionali della quale il Pentagono pronostica una lunga durata (nell’ordine dei venti-trent’anni) e che il vicepresidente americano Cheney considera potenzialmente «infinita». La seconda conseguenza è che oggi nuovamente – come già negli anni Trenta del Novecento – la battaglia democratica contro lo strapotere degli esecutivi, a salvaguardia dello Stato costituzionale di diritto, dell’autonomia della magistratura, dei principi di libertà e di autodeterminazione, si lega inestricabilmente alla lotta per la pace e contro la guerra. Se è vero che non c’è democrazia possibile quando c’è la guerra, è altrettanto vero che una grande lotta in difesa della democrazia può contribuire in modo significativo a sconvolgere i piani imperialistici di nuova colonizzazione del Sud del mondo su cui oggi Bush e i suoi alleati giocano il tutto per tutto e che rischiano di rappresentare solo la premessa di una nuova catastrofe mondiale.

note:
1 An Open Letter to the Members of Congress, in «The Nation», 14 ottobre 2002, p. 5.
2 Per un suo più approfondito esame rinvio al saggio introduttivo del mio La guerra delle razze, manifestolibri, Roma 2001. «Grande trasformazione» Karl Polanyi definì il massiccio ricorso al potere regolatore e coercitivo dello Stato dopo il fallimento delle politiche di libero mercato imposte dal grande capitale inglese tra gli anni Trenta e Settanta dell’Ottocento (cfr. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca [1944], Einaudi, Torino 1974).
3 Modello Guantanamo, apparso sul numero 35 del gennaio 2003 di questa rivista.
4 Convinta che la reazione militare al terrorismo sia sbagliata e che debba essere data una risposta politica, la deputata Barbara Lee è stata l’unica a votare contro. Questa fedeltà ai propri principi le è costata l’accusa di tradimento e numerose minacce di morte (cfr. Nancy Chang, Silencing Political Dissent. How Post-September 11 Anti-Terrorism Measures Threaten Our Civil Liberies, Seven Stories Press, New York 2002, p. 98).
5 Cfr. The State of Civil Liberties: One Year Later. Erosion of Civil Liberties in the Post 9/11 Era, A Report Issued by The Center for Constitutional Rights (www.ccr-ny.org ), pp. 4-5.
6 Usa Patriot Act è l’acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism; vedine il testo nel sito: www.eff.org/Privacy/Surveillance/ Terrorism.
7 Sulla definizione di «terrorismo interno» nel Patriot Act, Michael Ratner, Moving Toward a Police State (Or Have We Arrived?), in «Global Outlook», n. 1, 2002.
8 Consultabili nel sito: www.whitehouse.gov/news/ orders.
9 Per il testo integrale, si vada al sito del Dipartimento: www.whitehouse.gov/deptofhomeland.
10 In the Name of Security, Thousands Denied Constitutional Rights, in «American Free Press», 29 settembre 2001.
11 Riportato in: Gore Vidal, L’undici settembre e dopo (ottobre 2001), in Id., La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Fazi, Roma 2001, p. 23.
12 Cfr. Chang, Silencing Political Dissent, cit., p. 119.
13 Cfr. Amnesty International, All’s Concerns Regarding Post September 11 Detentions in the Usa, marzo 2002, pp. 6-7; Center for Constitutional Rights, The State of Civil Liberties, cit., p. 12 e passim.
14 Roberto Rezzo, Los Angeles, manette «preventive» agli islamici, in «l’Unità», 20 dicembre 2002.
15 Cfr. «Statewatch News-online» Aclu Comments on Patriot II Legislation (www.statewatch.org/news/2003/ feb ).
16 Il testo integrale commentato della lettera di Bush (US Letter from Bush to EU, 16.10.01) è reperibile nel sito: www.statewatch.org/observatory2.htm.
17 Cfr. US Letter from Bush to EU, 16.10.01, cit.; Tony Bunyan, The War on Freedom and Democracy. An Analysis of the Effects on Civil Liberties and Democratic Culture in the EU, A Statewatch publication, settembre 2002.
18 Sul tema, Jean-Claude Paye, Le ipocrisie del mandato di cattura europeo, in «Le Monde diplomatique» (ed. it.), febbraio 2002, pp. 4-5.
19 Cfr. «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», 22 giugno 2002, L 164/3. Per un primo esame dei provvedimenti assunti dall’Unione europea dopo l’11 settembre nel quadro della lotta contro il terrorismo, cfr. Didier Bigo-Elspeth Guild, De Tampere à Séville, vers une ultra gouvernementalisation de la domination, in «Cultures & Conflits», 45; Pierre Berthelet, L’impact des événements du 11 septembre sur la création de l’espace de liberté, de sécurité, et de justice, in «Cultures & Conflits», 46; Immigration and Asylum in the EU After 11 September 2001 («Statewatch Analysis» No 14: www.statewatch.org/news/2002/sep); Statewatch «Observatory»: In Defence of Freedom & Democracy (www.statewatch.org/observatory2b.htm).
20 EU Definition of «Terrorism» Could Still Embrace Protests (www.statewatch.org/news/2001/dec ); cfr. al riguardo le considerazioni di John Brown, I pericolosi tentativi di definire il terrorismo, in «Le Monde diplomatique» (ed. it.), febbraio 2002, pp. 4-5.
21 Una sintetica rassegna della legislazione anti-terrorismo varata dai diversi paesi dopo l’11 settembre è in appendice al volume Jamm/Senzaconfine, Vecchia repressione e nuova legalità. Il mondo dopo l’11 settembre visto dalla parte delle vittime, s.l., s.d. [ma 2002], pp. 54-65.
22 Amnesty International, Rights Denied: the UK’s Response to 11 September 2001, 5 settembre 2002, pp. 4-5; per il testo della legge: www.epolitix.com/data/ Legislation.
23 Cfr. Audrey Gillian, La situazione difficile dei terroristi internati in Gran Bretagna («The Guardian», 9 settembre 2002), in Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 42.
24 Irr News Service, UK: Terror Policing Brings Many Arrests but Few Charges: www.statewatch.org/news/2003/mar.
25 Rights Denied: the UK’s Response to 11 September 2001, pp. 14-8; per altri casi, cfr. Gillian, La situazione difficile dei terroristi, cit., pp. 40 ss.
26 Cfr. Vecchia repressione e nuova legalità, cit., pp. 47-9.
27 Cfr. Orsola Casagrande, Londra dei carri armati, in «il manifesto», 14 febbraio 2003; Lee Bridges, New Labour and New Authoritarianism in Criminal Justice, in Irr News, 14 gennaio 2003 (www.irr.org.uk/2003/ january). Per un’analisi più ampia della situazione carceraria inglese (in particolare riguardo ai minori), Roger Matthews, The Changing Nature of Youth Custody in Europe (dattiloscritto distribuito in occasione del Social Forum Europeo di Firenze); sulla condizione dei migranti detenuti, Loïc Wacquant, «Nemici convenienti». Stranieri e migranti nelle prigioni d’Europa, in Id., Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, ombre corte, Verona 2002.
28 Bunyan, The War on Freedom and Democracy, cit.
29 Amnesty International, Rights Denied: the UK’s Response to 11 September 2001, cit., pp. 3-4; Bunyan, The War on Freedom and Democracy, cit.
30 Cfr. Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni) e IV (Difesa), Resoconto stenografico dell’audizione del 27 gennaio 2003 (bozza non corretta).
31 Cfr. Vecchia repressione e nuova legalità, cit., pp. 33-4.
32 Cfr. Desi Bruno, La risposta legislativa all’11 settembre, in Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 50.
33 Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 34.
34 Per un’analisi della Legge Bossi-Fini (Legge 30 luglio 2002, n. 189) attenta a questi aspetti, si veda Angelo Caputo, La condizione giuridica dei migranti dopo la legge Bossi-Fini, in «Questione Giustizia», 5/2002, pp. 964-81; col permesso delle autrici, che ringrazio, mi sono qui avvalso anche delle osservazioni contenute in Desi Bruno – Silvia Allegrezza, Legislazione in materia di immigrazione ed asilo. Le fattispecie penali e le disposizioni transitorie (in corso di pubblicazione).
35 Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 7.
36 Massimo Solani, Immigrati, espulsioni selvagge e senz’appello, in «l’Unità», 11 marzo 2003.
37 Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 8.
38 Ivi, pp. 20, 26.
39 Suona così il sommario dell’apertura della prima pagina della «Repubblica» del 1° febbraio 2003. Il titolo non è meno apodittico: Napoli, la Nato nel mirino.
40 Cfr. Consiglio dell’Unione Europea, Doc. n. 14280/2/02 rev 2 (10 dicembre 2002): http://register.consilium.eu. int/, pp. 23-25.
41 Rifugiati. Italia inospitale, in «l’Unità», 20 gennaio 2003.
42 Cfr. Salvatore Palidda, La gestion néo-libérale des migrations en Italie, in «Hommes & Migrations», gennaio-febbraio 2003, pp. 43 ss.
43 Cfr. Associazione Giuristi Democratici, Guerra globale al terrorismo. «Bufale» e diritti umani, in: Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 28.
44 Questo vale per tutta Europa. L’11 dicembre scorso, il «Guardian» dava notizia di «discussioni segrete» in sede europea sul problema della ridefinizione dello status di rifugiato e di profugo; da tali discussioni starebbe emergendo l’orientamento di restringere la rosa delle motivazioni per l’ottenimento dell’asilo e di precarizzare d’ora in avanti tutte le situazioni, sottoponendole a verifica periodica (EU: All Refugee Status to Be Temporary and Terminated as Soon as Possibile, www.statewatch.org/ news/2002/dec). Sul tema cfr. Elspeth Guild, The Inexpected Victims of September Eleven. Immigration and Asylum, in: Walker Rob-Gokaï Bulent (a cura di), 11 September 2001: World, Terror, and Judgement, Ashgate, 2002.
45 Un aggiornato quadro d’insieme della situazione del sistema carcerario in Italia è offerto dalla recente Inchiesta sulle carceri italiane, a cura di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella (Carocci, Roma 2002), promossa dall’associazione Antigone.
46 D. Bruno, La risposta legislativa all’11 settembre, cit., p. 51.
47 Mentre sul «Secolo XIX» compariva l’inserzione a pagamento con le foto dei sindacalisti, «Panorama» pubblicava, con una significativa sincronia, un’intervista al ministro Pisanu nella quale si sosteneva che alcuni terroristi «si muovono nell’area antagonista delle manifestazioni pubbliche» (affermazioni del resto puntualmente ribadite da diversi esponenti del governo, a cominciare dal ministro Buttiglione, in occasione della recente cattura dei brigatisti rossi Galesi e Lioce, il 6 marzo scorso).
48 Cfr. al riguardo Liz Fekete, Peoples’ Security versus National Security, in Irr «News», 9 settembre 2002 (www.irr.org.uk/2002/ september).
49 Non è un caso che già nel 1995 Adrian Guelke (The Age of Terrorism, Tauris, London) osservasse come, a forza di «essere applicato a tipi assai diversi di violenza, alcuni dei quali, in particolare sul piano interno, non hanno un obiettivo politico», il concetto di terrorismo tenda a «disintegrarsi» (e quindi – si potrebbe aggiungere – a trasformarsi in una metafora della generalità dei soggetti e dei comportamenti che si intende reprimere). Tra il 1999 e il 2000 il Comitato dei capi di Stato maggiore elabora il rapporto Joint Vision 2020, nel quale la Cina è individuata senza mezzi termini come l’eventuale avversario di un prossimo conflitto globale (cfr. Paul-Marie de la Gorce, La nuova dottrina militare americana, in «Le Monde diplomatique» [ed. it.], marzo 2002, p. 5). Poco dopo (settembre 2000) prende forma, ad opera del think tank di Cheney e Rumsfeld (il Project for the New American Century), un dossier intitolato Rebuilding America’s Defences: Forces and Resources for a New Century (reso noto il 15 settembre 2002 dal quotidiano scozzese «Sunday Herald»), nel quale si puntano i riflettori sulla Cina e si ventila la possibilità che «le forze americane e alleate forniscano la spinta al processo di democratizzazione» di quel paese. Da ultimo, nell’ormai celebre The National Security Strategy of the United States of America (divulgato lo scorso settembre e pubblicato in Italia da «Liberazione» il 10 ottobre 2002), Bush sceglie la strada della minaccia esplicita: dichiara che, pur accogliendo «con gioia l’emergere di una Cina solida, pacifica e prosperosa», gli Stati Uniti non possono non rilevare che «nel perseguire avanzate capacità militari in grado di minacciare i vicini Stati della regione Asia/Pacifico, la Cina sta seguendo un percorso sorpassato che, alla fine, intralcerà la sua stessa ricerca della grandezza nazionale». Per ulteriori informazioni, è utile la lettura di Claude Serfati, L’imperialismo Usa dopo l’11 settembre, in «Guerre & Pace», n. 93, ottobre 2002; Michel Chossudovsky, Guerra e globalizzazione. Le verità dietro l’11 settembre e la nuova politica americana, Ega, Torino 2002.