Atesia: una vertenza strategica per i lavoratori e per l’unità sindacale

Sono oltre 4600 i lavoratori del Gruppo Cos-Atesia di Roma est (su un totale di 12.000), e, secondo i sindacati di base e varie inchieste, quella tra Cinecittà e Torre Spaccata è il territorio a maggiore densità di lavoratori precari d’Europa. Stipendio medio: 700-800 euro, che con le nuove tipologie contrattuali oscillano tra i 380 e i 450. Basterebbe questo a far esplodere una lotta sindacale e politica a livello nazionale al solo sentirne parlare. In effetti il conflitto è esploso, ma non al solo sentirne parlare (l’Atesia esiste sin dal 1992, e la situazione salariale si protrae ugualmente da anni), ed inoltre con posizioni contrapposte tra gli stessi lavoratori.
Andiamo con ordine: nel luglio 2004 i sindacati confederali firmarono un accordo con il gruppo Cos, accordo in cui si proponeva a lavoratori e lavoratrici anziane, o che comunque lavorano da anni in azienda (in tutto 550), contratti di inserimento, apprendistato e lavoro a progetto a tempo determinato, 18 mesi non rinnovabili, per far passare i quali il gruppo ricorrerà alla sceneggiata della rescissione delle collaborazioni e delle iscrizioni all’agenzia per l’impiego. In tal modo si creano centinaia di falsi disoccupati per risparmiare dal 25 al 50% sui versamenti INPS, pagati, come appena accennato, la metà dei normali collaboratori. Si sta dunque cercando di passare dal precariato arbitrario delle collaborazioni al precariato “gestito” dagli inserimenti e apprendistati, cancellando al possibilità di recuperare in tribunale le prevaricazioni subite dai lavoratori. L’”accordo di Palermo” non trovò l’approvazione unanime dei diretti interessati, tanto che 347 di loro (un numero cospicuo, dato che solo il 12-13% dei lavoratori dell’ Atesia sono iscritti ad un sindacato) lo respinsero con firma autografa. Non è tutto: oltre a questi nuovi contratti e alla decurtazione degli stipendi si annuncia un irrigidimento dell’organizzazione (leggasi: turni); in questo modo la logica vuole che nessuno licenzierà più il lavoratore in maniera autoritaria, ma esso verrà spinto a cercarsi un altro lavoro proprio grazie al terribile mix composto da rigidità di turni e bassi salari. E questa non è altro che una formula elegante per dire “mobbing”, per di più legalizzato. Anche se, proprio lo scorso luglio, vennero licenziati quattro lavoratori, colpevoli di aver chiesto informazioni sui turni e aver cercato di organizzare una assemblea in orario di lavoro all’interno dei locali aziendali.
Oggi, a tredici anni dall’istituzione dell’Atesia e a più di un anno dagli accordi di Palermo, la situazione è precipitata: in risposta all’azione ultra-moderata di CGIL-CISL-UIL si è formato il Collettivo Precari Atesia, che è espressione del rifiuto di quegli accordi. Fin qui il prologo.
Tale situazione di conflittualità interna ai lavoratori è degenerata in due scioperi per opposti motivi: il primo, indetto lo scorso 9 settembre da parte dei sindacati confederali, aveva come motivazione il mancato rispetto degli accordi del luglio 2004 – cioè il mancato rispetto della legge 30, quella stessa legge che tutti, almeno a parole dicono essere ingiusta e dannosa; perciò, in questa occasione il Collettivo Precari ha invitato i lavoratori a non scioperare e ha richiesto a tutte le realtà politiche e istituzionali di non invitare allo sciopero i lavoratori. Il secondo sciopero, convocato lo scorso 15 settembre dal Collettivo Precari, oltre a reclamare l’abrogazione del pacchetto Treu e della legge 30, ha avuto come piattaforma la trasformazione di tutti i contratti di lavoro precario in contratti a tempo indeterminato full o part-time, un adeguato inquadramento in termini della professionalità acquisita nel corso degli anni per tutti i lavoratori e le lavoratrici, l’applicazione della normativa esistente in materia di sicurezza, il rifiuto dei processi di esternalizzazione e cessione di rami di azienda e l’adeguamento dei salari.
Sorge, come si vede, il problema – tutto politico – della “comunicazione” ed interazione tra queste due realtà. Un problema che né i sindacati confederali né il Collettivo o i sindacati di base possono risolvere da soli e che richiama il sempre più ricorrente tema dell’unità sindacale “del movimento operaio”, si sarebbe detto anni fa. Non si tratta di un tema da sottovalutare, soprattutto in una vertenza particolare come questa, che riguarda non un luogo di lavoro tradizionale, ma il lavoro di nuova generazione, quello dove nessuno usa le mani se non per usare un computer, e che ha per oggetto non la produzione di beni materiali ma di servizi immateriali, difficilmente alienabili. Naturalmente, nessuno ha una soluzione rapida al problema. Di sicuro, la vertenza e la problematica esposta non potranno essere risolte dalle due realtà sindacali da sole. E’ in casi come questi che si fa urgente la necessità della presenza attiva di un Partito Comunista. Così è stato negli ultimi due scioperi e così sarà in seguito. E tuttavia non si può dire che il nostro lavoro come PRC e come Giovani Comunisti si possa esaurire qui: stante la situazione, un partito che si dice comunista deve non solo solidarizzare ma impegnarsi strenuamente, anche a costo di subire pesanti critiche e accuse di protagonismo da parte degli stessi precari auto-organizzati – cosa che in verità è già accaduta più volte – e fare sintesi costruttiva fra le due parti. Viste le posizioni dei sindacati confederali e la loro inamovibilità, non si po’ nascondere il pessimismo, ma questa è la sfida che ci viene posta. E che come tale, dal momento che si parla di precarietà, lavoro e diritti, va affrontata.