Atesia l’ingorda stavolta s’è fermata

Viaggio nei call center romani. Lo sciopero dei tremila cococò del gruppo Cos Addetti al 119 Tim, gli operatori non hanno un compenso fisso. Tanti i lavoratori «atipici» ormai da anni, quarantenni e cinquantenni che in fondo al tunnel non vedono neppure una pensione. In stallo l’accordo dei confederali, i delegati Cgil rompono con Cisl e Uil. E si uniscono allo stop di 24 ore

L’ultima beffa di Atesia è stata la riduzione del compenso per tre minuti di chiamata: da un euro – cifra assicurata all’inizio – a 90 centesimi, poi a 80. «Un errore di stampa», è stato il commento dei capi quando gli operatori hanno letto le buste paga. E’ solo uno dei tanti piccoli episodi che dimostrano la quotidiana prepotenza a cui sono esposti i cococò del più grande call center italiano: 3 mila precari, alcuni alla cornetta da 12-13 anni. Giovedì e venerdì scorso hanno scioperato per 24 ore, riunendosi in assemblea nel cortile di fronte all’entrata, tra i palazzi della cittadella commerciale di Cinecittà. Atesia oggi appartiene alla Cos, il gruppo romano che ha acquistato il call center dalla Telecom: ma lavora ancora su commesse della compagnia telefonica, soprattutto per il servizio 119 Tim. Neanche a dirlo, chi risponde alle chiamate non gode di nessuna retribuzione fissa: è vittima dei capricci dell’azienda, che fissa a proprio piacimento i compensi. Un «cottimo» tipico di tanti call center: tanto parli, tanto guadagni. Se non ricevi chiamate e stai in attesa, quel tempo di lavoro non ti viene riconosciuto. Ma c’è una novità interessante che Atesia e la Cos hanno sperimentato negli ultimi mesi, sovvertendo, per così dire, le regole: il metodo del «più parli, meno guadagni».

«Signora, devo chiudere. Sennò ci rimetto»

Il sistema, in uso fino a qualche settimana fa e che oggi è stato sospeso a causa delle proteste degli operatori, è presto spiegato: bisogna sapere che le telefonate che arrivano dai clienti Tim, vengono retribuite solo se superano i 20 secondi. Ovvero, da 1 a 20 secondi di dialogo l’operatore lavora gratis: successivamente, il compenso cresce in maniera progressiva, fino a raggiungere gli 85 centesimi di euro quando si arriva a parlare per due minuti e 41 secondi. E dopo? Da due minuti e 41 a tre minuti il guadagno resta fisso a 85 centesimi, ma allo scattare dei tre minuti e 1 secondo torna indietro: l’operatore perde 5 centesimi, e torna a 80. Un «gioco dell’oca» dei compensi, di cui fanno le spese – è facile immaginarlo – non solo i lavoratori, ma anche i clienti del servizio 119. «Certo, io raggiunti i 2 minuti e quarantuno secondi faccio di tutto per chiudere – spiega una delle operatrici – In questo modo siamo spinti a trattare in maniera sbrigativa i clienti, perché l’azienda ha calcolato che una telefonata non deve durare più di tre minuti». Come abbiamo già detto, il sistema non è più in uso, ma in cambio la Cos ha modificato in peggio i parametri per il calcolo del compenso, applicando la novità retroattivamente. Risultato: molti lavoratori hanno trovato in busta paga meno di quanto si aspettavano, pur avendo maturato il loro guadagno secondo le regole precedenti.

L’accordo di maggio e la rotta dei sindacati

Ma la protesta di questi giorni non si è sviluppata solo per i «capricci» della Cos nello stabilire (pressoché unilateralmente) i compensi legati alle chiamate: gli operatori non sopportano più le condizioni di lavoro (in particolare sui problemi della sicurezza e del rispetto della legge 626), e chiedono lavoro stabile per il futuro. Sembrano destinati infatti a una perenne precarietà, dato che l’accordo del maggio di un anno fa – siglato dai sindacati confederali – è ancora inapplicato e in totale stallo. Le diverse sigle stanno implodendo: i delegati della Cgil, ormai in rotta esplicita con quelli di Cisl e Uil, hanno deciso di appoggiare lo sciopero della scorsa settimana, organizzato da un collettivo autonomo di precari. A loro si sono uniti, per solidarietà, le Rsu Cgil di Cos e Cosmed (rappresentanti dei dipendenti), e quelle della Finsiel (ramo informatico della Telecom, recente acquisto della stessa Cos).

L’accordo cui ci riferiamo è quello siglato nel maggio dello scorso anno: si fissava allora che i cococò di Atesia sarebbero stati trasformati in contratti di apprendistato (per le fasce di età 18-23 anni), apprendistato professionalizzante (fascia 24-29 anni), inserimento (categorie «deboli» e di collocamento più difficile, come le donne) e cocoprò (detti anche «lap», ovvero lavoratori a progetto, ugualmente precari). Nel frattempo, per mettere a punto il cambiamento contrattuale, la Cos ha ottenuto, grazie a un accordo con i sindacati, la proroga di tutti i cococò fino al settembre 2005. Ha dunque proceduto a mettere nero su bianco i contratti di apprendistato da far firmare ai lavoratori. E qui è scattata la rivolta.

Il contratto da apprendisti, lungo 26 mesi, prevedeva infatti un compenso di partenza di 380 euro lordi per 20 ore a settimana (la retribuzione sarebbe poi cresciuta progressivamente, giungendo al ventiseiesimo mese ai 560 euro lordi previsti dal contratto delle tlc). Il piccolo particolare è che la Cos ha pensato bene di inserire una disponibilità per i turni 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno, impedendo così ai lavoratori di poter trovare un qualsiasi altro impiego part time per integrare il già magro compenso. Oltretutto, si proponeva agli operatori di rinunciare al pregresso: ovvero, se firmi non puoi più fare causa per lo sfruttamento subito negli anni passati. Risultato: su 207 persone, hanno deciso di accettare solo in 16. Mentre i delegati Cgil su questo punto hanno deciso di smarcarsi: «E’ davvero troppo – dice Pompeo Scopino, del Nidil – Chiedere la disponibilità dei turni e la rinuncia al pregresso è inaccettabile». Intanto, mentre centinaia di lavoratori partecipavano alla protesta, i delegati Cisl e Uil restavano barricati dentro: «Dicono che siamo estremisti, che fuori ci sono i terroristi», spiegano gli scioperanti riuniti davanti all’entrata del call center. Ma francamente, nello spiazzo di Cinecittà noi abbiamo visto una protesta compostissima, fatta da tante persone che hanno solo il desiderio (e crediamo anche il diritto) di un impiego dignitoso e stabile.

«A cinquantacinque anni sono precaria»

Tra i pericolosi «estremisti», moltissimi i lavoratori over 40 e 50, stanchi dello sfruttamento al call center: «Io ho cinquantacinque anni – spiega una delle operatrici – e sono qui dentro da quando ci facevano pagare la postazione con la partita Iva, a metà anni Novanta. Perché scioperiamo? Innanzitutto per le condizioni di lavoro: l’ambiente non è climatizzato e si muore di caldo, le postazioni non sono insonorizzate, siamo costretti a lavorare appiccicati. E poi la precarietà: adesso se lavoro molto riesco a fare 800 euro al mese, forse in ottobre ce ne offriranno 600 per un contratto con uno straccio di contributi. Ma che futuro è questo?». «Lo stesso sindacato – aggiunge un’altra lavoratrice – dovrebbe fare una vertenza forte: dopo tanti anni, basta con i cococò, i cocoprò e simili: abbiamo diritto a un lavoro stabile e ben retribuito». Una ragazza ci mostra l’agendina dove segna le telefonate fatte: «Ecco, sabato scorso ho lavorato 6 ore e ho fatto sì e no 7 euro: ma si può continuare così?».

Se la rottura tra i delegati Cgil e quelli Cisl e Uil è dunque maturata soprattutto sulle liberatorie per il pregresso, oggi in Atesia l’ambiente sembra pronto per organizzare scioperi partecipati e convinti, che puntino a una vera stabilizzazione, scavalcando tutte le trappole precarizzanti introdotte della legge 30: «Non possiamo più andare dietro all’azienda e firmare tutto quello che propone, dobbiamo avere il coraggio di chiedere di più», dicono i precari autorganizzati.

D’altra parte, la Cos concorda gli obiettivi da raggiungere con la Telecom, e non mostra i compensi che riceve per le commesse: se le retribuzioni dei lavoratori e la durata dei contratti precari dovessero seguire sempre il mercato, si andrebbe a una corsa al ribasso infinita. Non sarebbe ormai tempo di stabilizzare tutti gli operatori che da anni, ininterrottamente, rispondono allo stesso telefono? Garantirebbe anche i clienti, non più costretti a subire meccanismi diabolici quali il «più parli, meno guadagni».