Aspettando di essere uccisi

«Voi palestinesi traditori, voi gente di Saddam, voi terroristi e infedeli dovete lasciare il paese. Avete dieci giorni per partire, altrimenti verremmo ad uccidervi. Brigate del Giorno del Giudizio». È il testo, scritto su un foglio di carta, trovato affisso alla porta della loro abitazione in un quartiere di Baghdad, da una famiglia palestinese, una mattina dello scorso settembre.
I palestinesi in Iraq, a parte famiglie che vi vivevano fin dai tempi antichi, sono profughi dal 1948 o dal 1967 e che, a differenza di altri paesi arabi dove i palestinesi vivono principalmente nei campi profughi sotto la protezione dell’ Unrwa, l’agenzia per la protezione dei profughi delle Nazioni Unite, in Iraq abitano o per meglio dire abitavano nei quartieri delle città, in case assegnate dal regime e possedevano documenti di viaggio e passaporti.
Dal giorno dell’ occupazione militare e la fine del regime di Saddam Hussein nell’ aprile 2003 i palestinesi sono stati sottoposti ad ogni sorta di discriminazioni, sono stati licenziati e perso il lavoro oltre a vessazioni e crudeltà. Varie organizzazioni umanitarie denunciano che una «sistematica campagna di pulizia etnica» contro i rifugiati palestinesi è in atto a Baghdad: nel solo 2006 sono stati oltre 600 gli uccisi dalle milizie sciite. Come un anziano di 70 anni, Tawfiq Abdul-Khalil Abu Abed, è stato trovato cadavere, con evidenti segni di tortura, ucciso da un gruppo di criminali che lo aveva sequestrato. Abu Abed è solo una delle tante vittime degli squadroni della morte in Iraq.

Sciiti scatenati
Nei giorni immediatamente successivi all’occupazione militare, nel periodo del maggior vandalismo, cittadini iracheni, principalmente sciiti hanno costretto molti palestinesi a lasciare le loro case per non essere uccisi. Li accusavano di essere collaboratori del regime e di essere stati privilegiati da Saddam e per di più di religione sunnita. Anche in Kuwait dopo la fine della guerra, i palestinesi sono stati perseguitati, messi in carcere, uccisi e più di 300.000 sono stati costretti a fuggire, perdendo tutti i loro averi e pagando il prezzo della guerra di Saddam Hussein.
In Iraq le loro case sono state messe a soqquadro, derubate e poi occupate da altri iracheni. Anche l’ Ambasciata palestinese è stata attaccata per ben tre volte e l’ambasciatore è stato in carcere per più di un anno. Le forze di sicurezza del ministro degli interni iracheno sono stati accusati di essere implicati nella detenzione arbitraria, tortura, assassinii e «scomparsa» di molti palestinesi. Le stesse milizie armate affiliate alle brigate Badr e Mahdi hanno emesso proclami contro di loro e attaccato palestinesi isolati.
Il processo di continuo deterioramento delle condizioni di vita dei palestinesi in Iraq non è arginabile né tanto meno si può pensare di invertirne l’andamento. Non lo permette lo stato attuale in cui versa la società irachena, sommersa dagli scontri, dai bombardamenti e dagli attentati. Percepiti come la vecchia classe privilegiata ai tempi del regime di Saddam Hussein, i palestinesi sono divenuti un capro espiatorio. Sono bersaglio di tutte le forze armate irachene, dall’esercito, alla polizia, alle milizie fondamentaliste: 186 vittime, in 662 attacchi armati, secondo l’organizzazione per i diritti umani palestinese «Rased». E alla violenza corrisponde il processo di esclusione e discriminazione civile messo in atto dalle autorità irachene: tutti i permessi di residenza, temporanei e permanenti (ottenuti sotto il regime di Saddam Hussein) sono stati annullati, procurarsi un lasciapassare di viaggio è quasi impossibile, i documenti per i nuovi nati sono stati sospesi fin dal 2003, ogni tipo di assistenza e aiuto umanitario è negato, è passata una legge che obbliga ogni singolo palestinese a presentarsi di fronte alle competenti autorità ogni tre mesi. Tutta la famiglia persino i neonati e le persone anziane senza prendere in considerazione malattie o infermità. Ogni ritardo comporta una multa di 10mila dinari.

La pulizia etnica a Baghdad
I palestinesi che possedevano un passaporto sono riusciti a passare la frontiera e sono di nuovo profughi in Giordania, Siria, gli altri sono senza identità, senza passaporto. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) nel 2003 aveva registrato 23 mila palestinesi in Iraq mentre il totale stimato era di 34 mila persone. L’ Agenzia ha reso noti diversi attacchi di milizie armate. In particolare qualche settimana fa nel sobborgo palestinese Al Baladya di Baghdad, dopo diverse minacce per imporre ai palestinesi di abbandonare il quartiere, quattro sono stati uccisi e una dozzina feriti gravemente e molte famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Le ambulanze che tentavano di raggiungere l’area subito dopo l’attacco sono state allontanate da milizie armate. Il sobborgo di Al Baladiya ospitava abitualmente circa 8mila palestinesi, ma secondo fonti palestinesi attualmente solo circa 4mila si trovano nell’area. L’Agenzia esprime grave preoccupazione per le condizioni dei rifugiati palestinesi e per la difficoltà nel fornire loro adeguata protezione. Anche se è responsabilità del governo iracheno e delle forze di coalizione garantire protezione, non solo non è stato fatto nulla dal governo iracheno per difendere la popolazione palestinese, anzi nell’ Ottobre del 2005 il ministro per gli sfollati e i migranti ha richiesto l’espulsione dall’ Iraq di tutti i profughi palestinesi, a nulla sono valse le promesse del presidente curdo Jalal Talabani di assicurare sicurezza ai palestinesi, ed anche se in Iraq nessuno è sicuro, i palestinesi sono ancora meno sicuri di altri.
La gran parte di loro fuggiti dalle città per non essere uccisi hanno raggiunto i campi profughi situati sulla linea di confine con Siria e Giordania. Sono circa 1300 quelli fermi alle frontiere, e sempre secondo l’Unhcr sono circa 20. 000 quelli ancora intrappolati a Bagdad.
Per i palestinesi iracheni scappare è l’unica via, ma anche una via interdetta. I documenti del regime non valgono più nulla e il loro status giuridico non riconosciuto (molti sono di fatto apolidi), li costringe ad essere la minoranza con più difficoltà a lasciare l’Iraq. Siria e Giordania, mentre hanno accolto migliaia e migliaia di iracheni per i palestinesi hanno chiuso i confini, solo nel 2004 la Giordania ha concesso l’ingresso a 386 persone sposate con giordani mentre la Siria ha accettato 256 persone nel maggio 2006. Ciò ha comportato la creazione di 4 campi profughi, uno nel deserto giordano, uno in Siria, uno in Iraq e uno nella cosiddetta «terra di nessuno» tra l’Iraq e la Siria. Quello di Ruwayshid, è uno dei primi campi, si trova a tre ore di automobile da Amman all’interno dell’ Iraq, nel deserto, un campo voluto dai giordani che non hanno permesso al primo gruppo di palestinesi che erano fuggiti da Bagdad nei primi giorni dei bombardamenti dell’ Iraq, di trovare rifugio in Giordania. I palestinesi vivono nelle tende da ormai quattro anni, non possono lasciare il campo se non per essere ricoverati in ospedale ad Amman , ci sono bambini che non hanno mai visto la vita fuori dal campo, vivono circondati dal filo spinato e presidiati da guardie militari. La richiesta dell’Unhcr agli stati confinanti e agli altri Paesi arabi di mantenere aperti i loro confini verso i rifugiati palestinesi provenienti dall’Iraq, visto che non ci si può aspettare che Siria e Giordania facciano fronte alla situazione da sole, rimane inascoltata.
Dal maggio del 2006 più di 400 palestinesi, vivono nel campo di tende di Al Tanf, nel deserto nella terra di nessuno tra la Siria e l’ Iraq. Quando sono arrivati hanno trovato la frontiera chiusa. Muhammod ha 26 anni ha raggiunto il campo di Al-Tanf quest’anno, dopo un viaggio tragico nel quale il suo compagno è stato brutalmente ucciso. Racconta che erano già fuori città, quando la polizia irachena li ha fermati. Constatato che si trattava di due palestinesi, gli hanno sequestrato tutti i valori e hanno cominciato a picchiarli. L’amico che accompagnava Muhammod è stato finito con un colpo in testa, mentre lui, sfiorato al collo da un colpo di pistola, è sopravvissuto perché creduto morto. Il suo naso era fracassato dalle botte e la polizia ha pensato che la pallottola l’avesse colpito al volto.

«Che cosa vogliono da noi?»
Sahar Ahmed, palestinese ha 41 anni è nata in Iraq, la sua famiglia era fuggita da uno dei 362 villaggi palestinesi evacuati da Israele nel 48 e poi rasi al suolo per cancellare memoria e possibilità di ritorno per i suoi abitanti, ha quattro figli, uno di loro è stato torturato, la figlia stuprata e il marito ucciso. Gli uomini armati e con i passamontagna sono entrati di casa ed hanno distrutto tutto. Sahar è riuscita a trovare l’ufficio per il Coordinamento degli affari umanitari dell’ Onu e rendendo la sua testimonianza ha detto «Chiedo al mondo, che cosa vogliono da noi? cosa aspettano ad aiutarci? Con una figlia stuprata, un figlio torturato, il marito ucciso e senza casa, quale prova vogliono ancora per aiutarci ad uscire da questo paese, quanta sofferenza ancora dobbiamo subire, dobbiamo stare qui ad attendere che ci uccidano tutti, in attesa ogni giorno di essere presi e torturati?». Nadia Othman, che da Baghdad è fuggita in Giordania, racconta della morte di suo fratello: «I miliziani sciiti lo hanno fermato mentre andava alla scuola dove insegnava arabo, dopo aver visto i suoi documenti gli hanno sparato alla nuca a sangue freddo». «Lo stesso giorno – continua la donna – hanno rapito e ucciso il presidente della palestinese Haifa Sports Club dell’Iraq». Un altro palestinese, che è riuscito ad entrare nel nord della Cisgiordania, riferisce che ormai nessuno esce più con i documenti addosso nel tentativo di cancellare la propria identità. Sembrano quasi i racconti del Libano durante la guerra civile, ai sospettati di essere palestinesi veniva chiesto come si diceva pomodoro, i palestinesi rispondevano «bandura», i libanesi «banadura» si racconta che molti palestinesi in Libano siano stati riconosciuti e uccisi per questo.

* Vice Presidente del Parlamento Europeo