Fra giovedì e venerdì sono stati arrestati a Montevideo Juan Maria Bordaberry e Juan Carlos Blanco, ex presidente della repubblica ed ex ministro degli esteri golpisti di 30 anni fa. Bordaberry era il presidente eletto nel ’71 che nel ’73 si prestò al colpo di stato dei militari divenendone il burtattino civile, e Blanco fu il capo della diplomazia. Il giudice Roberto Timbal li ha accusati e li manderà sotto processo per il sequestro e l’assassinio, nel ’76, di Zelmar Michelini e Hector Gutierrez, due deputati del Congresso uruguayano fuggiti (e uccisi) a Buenos Aires dopo il golpe, e di due militanti tupamaros, Rosario Barredo e William Whitlaw, anch’essi assassinati nella capitale argentina. Il Plan Condor – l’internazionale del terrore scatenata nel ’75 dalle dittature militari di Cile, Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e Bolivia – funzionava a pieno regime.
Bordaberry, che ha 78 anni, e Blanco sono stati denunciati fin dal 2002 dai familiari dei desaparecidos.
In Uruguay tutti parlano di «un fatto storico». Sobri i commenti del presidente della repubblica, il socialista Tabaré Vazquez – «Ha parlato la giustizia» – e di monsignor Pablo Garimberti, capo della Conferenza episcopale – « Nessuno è impune davanti alla giustizia». Più emotivo quello di Rafael Michelini, senatore e figlio di Zelmar: «Dopo tanto dolore e tanti anni d’attesa, finalmente la giustizia ha fatto il suo dovere».
Era ora. Anche in Uruguay – come in Cile, Argentina e Brasile – una legge di (auto)amnistia, chiamata «Ley de caducidad», approvata nell’86 e confermata di stretta misura da un referendum popolare nell’89, aveva garantito l’impunità ai responsabili di quegli orrori.
Ma anche in Uruguay sembra difficile che l’oblio e l’impunità di Stato possano scrivere la parola fine su crimini che la coscienza e la giurisdizione universali considerano ormai come imperdonabili e imprescrittibilim e su leggi insostenibili di (auto)amnistia imposte in nome della mitica «riconciliazione nazionale».
Rispetto alle nefandezze commesse dalla dittatura fra il ’73 e l’85, Vázquez nella sua campagna elettorale del 2004, si era detto pronto a cercare una soluzione accettabile, politica e umana se non giudiziaria, dal momento che affermava di avere le mani legate dalla legge e dal referendum (ma anche in Cile e Argentina c’erano leggi di analoghe che si erano potute aggirare o erano state poi dichiarate nulle), mediante misure che almeno portassero alla conoscenza piena dei fatti di allora – i luoghi in cui si trovavano i resti dei desaparecidos, i nomi dei torturatori e dei killer – e a un indennizzo economico per i familiari e le vittime sopravissute. C’è voluto tempo. Se nell’Argentina di Kirchner le leggi erano state dichiarate incostituzionali e nulle, e nel Cile di Lagos e Bachelet l’ (auto)amnistia è stata aggirata attraverso la specie del «sequestro permanente di persona» (ossia un reato «che continua fino a quando non si trovano i resti dei desaparecidos), in Uruguay il grimaldello usato dalla giustizia è stato il «buco» lasciato dalla Ley de caducidad: che garantiva l’impunità ma solo ai militari e non ai civili coinvolti nelle atrocità di quegli anni.
In Uruguay la dittatura e la repressione furono diversi da quelli di Cile e Argentina. Fu un golpe strisciante, con civili complici e burattini che restarono ai vertici dello Stato e del governo (come Bordaberry e Blanco), con tecniche di sterminio differenti fatte più che di uccisioni dirette e plateali, di arresti in massa e torture prolungate. Si calcola che in quegli anni almeno un uruguayano su 5 passò per il carcere e la tortura. Molti non ressero: e morirono sotto le sevizie e poco dopo, come fu il caso del leader tupamaro Raul Sendic liberato nell’85 dopo 12 anni di carceri e sevizie e morto nell’89. Questa «tecnica» spiega perché il numero dei desaparecidos in Uruguay ufficialmente sia basso – 170 – rispetto ai 3000 del Cile e ai 30000 dell’Argentina.
Le prime tre presidenze dopo l’85, quelle del colorado Julio Maria Sanguinetti (due volte) e del blanco Luis Alberto Lacalle chiusero occhi e orecchie trincerandosi dietro la legge dell’86. La quarta, del colorado Jorge Batlle, dovette rassegnarsi a mettere in piedi una Commision para la paz che indagò sui casi di 200 desapariciones forzadas e costrinse il governo a riconoscere, per la prima volta, che 26 uruguayani – politici, sindacalisti, studenti e tupamaros – morirono a seguito delle torture in centri clandestini. Nell’84 i militari riesumarono i loro corpi, li bruciarono e gettarono le ceneri dagli aerei nel Rio de la Plata e nell’Atlantico. La variante uruguayana dei voli della morte.