Argentina alla sbarra, ma sotto processo c’è anche l’Italia

Mentre l’Argentina teme per la sorta di Julio Lopez, primo «desaparecido in democrazia», a Roma, nell’aula bunker di Rebibbia – II corte d’assise presieduta da Mario Lucio D’Andria – si sono tenute le prime due udienze contro i militari argentini Alfredo Astiz, Jorge Acosta, Hector Antonio Fébres, Jorge Vañek e Jorge Vildoza . L’accusa per tutti è di avere, durante gli anni della dittura Videla, sequestrato torturato e procurato la morte dei cittadini italo-argentini Angelamaria Aieta Gullo, Giovanni e Susana Pegoraro. Tutti e tre furono condotti all’Esma, la famigerata Scuola di meccanica della marina militare argentina, e lì furono visti vivi per l’ultima volta.
Angelamaria, nata a Cosenza, aveva 56 anni quando venne sequestrata nell’agosto del 1976, da un operativo militare il cui obiettivo probabilmente era il figlio Dante Gullo, leader della Gioventù peronista. Giovanni Pegoraro, imprenditore edile di Mar del Plata, e sua figlia Susana di 21 anni vennero sequestrati insieme il 18 giugno del 1977 a Buenos Aires, dove il padre si trovava occasionalmente per motivi di lavoro e dove Susana studiava all’università, giurisprudenza.
La prima udienza è apparsa quasi un esame sulle responsabilità del governo italiano che, all’epoca del golpe, si preoccupò più dei suoi interessi economici e politici in Argentina piuttosto che del massacro che in quel paese si stava perpetrando. Le testimonianze rese da Italo Moretti e Enrico Calamai, rispettivamente giornalista Rai ed ex console italiano a Buenos Aires all’epoca dei fatti, parlano di corresponsabilità. Moretti racconta l’indifferenza del governo italiano sulla sorte dei desaparecidos, anche se di origine italiana: il futuro regista Marco Bechis (Garage Olimpo) si salvò solo perché il padre era un alto funzionario della Fiat in Argentina.
D’impatto la deposizione di Calamai – non è facile per chi all’epoca rappresentava l’Italia in Argentina ammettere che l’ambasciata era stata informata dell’imminente golpe, ma Roma ordinò di non interferie. Molti chiesero l’aiuto di Calamai al consolato, ma nonostante la sua generosità, di cui preferisce non parlare, non riuscì ad aiutare tutti.
Nelle testimonianze si fa il nome di Licio Gelli, impegnato prima e durante gli anni della dittatura a mettere in contatto il governo argentino con imprese pubbliche e private in Italia che, ovviamente, avevano tutto l’interesse a riportare una buona immagine del paese sudamericano presso le sedi istituzionali italiane. Ma il nome del capo della loggia massonica P2 ritorna anche nelle testimonianze della seconda udienza, rilasciate dallo scrittore e giornalista Horacio Verbitsky e dagli ex militari José Luis Garcia e Julio César Urien. Verbitsky ricorda che il passaporto falso in possesso di Gelli, quando venne arrestato in Svizzera, era stato fatto in uno dei «laboratori» dell’Esma, diretta – elenca con precisione Garcia, colonnello in congedo dell’esercito argentino, all’epoca del golpe insegnante nella scuola militare adiacente all’Esma ed ora membro del Cemida (Centro dei militari per la democrazia argentina) – da Massera con la collaborazione di Vañek, Vildosa, Acosta e Astiz.
E si entra nella ferita, per molti ancora aperta, di cosa accadeva all’Esma. Ognuno aveva un suo ruolo, chi sequestrava, chi torturava e chi «faceva sparire» le vittime. E c’era Fébres, il prefetto navale, con l’incarico di «gestire» le internate in stato di gravidanza, e soprattutto i figli «nati in cattività». Si calcola che oltre 5000 persone passarono per l’Esma, tutti scomparsi e, secondo Vertbisky, almeno tremila gettati dagli aerei. Il pm Francesco Caporale ha chiesto e ottenuto di mettere agli atti il libro-testimonianza «Il volo» di Verbitsky e una intervista-confessione di Adolfo Scilingo, altro torturatore condannato in Spagna all’ergastolo, il primo ufficiale «pentito» dell’Esma. Un «uomo distrutto» si dichiara Scilingo, che ammette di aver fatto parte di due «voli della morte» durante i quali sono stati gettati in mare complessivamente 30 persone. «Avrei potuto rifiutarmi, avremmo potuto dire no», ammette. Ma non fu così. Alla fine il racconto di Urien, il tenente di fregata che quel no lo disse e per questo ha passato molto del suo tempo in prigione.