Arbil, strage tra le reclute: sessanta morti

Un attentatore suicida si fa esplodere tra i peshmerga curdi in attesa di essere arruolati nella nuova polizia davanti alla sede del Pdk. Tokyo lascerà l’Iraq il 31 dicembre 2005. Scende al 41% la percentuale degli americani favorevoli alla guerra

All’indomani del giuramento del nuovo governo «sciita-curdo» di Ibrahim Jafaari l’Iraq ha vissuto un’altra tragica giornata di sangue: un attentatore suicida si è fatto saltare tra una folla di giovani che stavano facendo la fila nella capitale della provincia autonoma, Arbil, per arruolarsi nella nuova polizia irachena, uccidendone almeno sessanta e ferendone un centinaio. L’esplosione è avvenuta verso le 9,30 locali quando l’attentatore è riuscito ad infiltrarsi tra coloro che sostavano davanti alla sede locale del Partito democratico del Kurdistan di Massoud Barzani, presso la quale, in una totale confusione di ruoli tra funzioni di partito e funzioni istituzionali, il nuovo ministero degli interni (secondo la nuova linea Usa di utilizzare contro la resistenza a maggioranza sunnita le milizie sciite e curde) aveva aperto i suoi uffici di arruolamento. L’esplosione, potentissima, ha fatto strage uccidendo decine di aspiranti poliziotti, distruggendo una decina di auto e danneggiando l’edificio che si trova proprio alle spalle dell’Hotel Sheraton.

L’attentato è stato rivendicato poco dopo dal gruppo estremista sunnita «Ansar al Sunna» con un comunicato nel quale sostiene di aver voluto colpire le milizie curde che «lavorano per i crociati». In particolare «Ansar al Sunna» – lo stesso gruppo che rivendicò il duplice attentato dell’ottobre del 2004 contro le sedi del Pdk e dell’Unione patriottica del Kurdistan, sempre ad Arbil, uccidendo oltre 100 persone – nel suo comunicato sostiene di aver voluto così vendicare «i nostri fratelli torturati nelle vostre carceri». Ansar al Sunna da tempo è in guerra con le milizie dei due partiti curdi – oltre che con le truppe di occupazione americane – derivando in parte da un’altra organizzazione «Ansar al Islam», un movimento estremista curdo sunnita, nell’area di al Qaeda, che negli anni novanta aveva creato una sua enclave sulle montagne orientali del Kurdistan, vicino ad Halabja, dove poi i suoi militanti erano stati in gran parte massacrati dai bombardamenti americani e dai peshmerga di Jalal Talabani, signore di Suleimaniya. Il fronte curdo, a poche ore dal giuramento del governo «parziale» (non sono stati nominati sei ministri tra i quali quello della difesa e del petrolio) di Ibrahim Jafaari, esponente sciita del partito «al Dawa», dal quale sono stati esclusi anche i sunniti più filo-Usa, è in tumulto: innanzitutto sono sorti di nuovo gravi contrasti tra il Pdk e l’Upk, sui modi di elezione del nuovo presidente della provincia autonoma curda con Barzani favorevole ad una elezione diretta (sicuro di vincerla) e Talabani per una designazione indiretta da parte dell’assemblea regionale. In secondo luogo, imboccando una china senza fondo, i politici curdi si sono lanciati in uno scontro interno senza esclusione di colpi per decidere chi sia il più intransigente sulla richiesta della secessione e sull’attuazione della pulizia etnica ai danni degli arabi e dei turcomanni di Kirkuk, cassaforte petrolifera del nord sottoposta ad un rapido processo di kurdizzazione forzata. Un processo tollerato dagli Usa, incoraggiato dai consiglieri militari israeliani che dai primi anni settanta addestrano le milizie curde in funzione «antiaraba», e finanziato in parte dai settori più radicali della lobby israeliana a Washington. Un’alleanza sancita nei mesi scorsi dal matrimonio tra il figlio di Talabani, Qubad e Cherri Kraham della comunità ebraica di New York avvenuto nel Castello del Palagio in Chianti. A mandare su tutte le furie il mondo politico curdo, proteso verso una sciagurata e impossibile secessione, è stato il presunto cambiamento della formula con la quale ha giurato, due giorni fa, il nuovo governo al Jafaari: i ministri si sono impegnati a difendere «la sovranità e l’indipendenza dell’Iraq» senza citare, come – secondo alcuni leader curdi si erano impegnati a fare – il suo «sistema federale», anticamera di una divisione del paese. I due partiti curdi hanno invece comuni riserve sul progetto del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq, il partito principale della lista sciita unitaria, di cacciare da ogni posizione di responsabilità tutti i sunniti provenienti dalle fila dell’esercito e dei servizi del passato regime. Una misura che colpirà evidentemente soprattutto i sunniti arabi ma che potrebbe estendersi anche agli ufficiali sunniti curdi. Anche perché molti comandanti delle forze di sicurezza curde che combatterono ai tempi di Saddam per difendere il loro paese contro gli iraniani e i movimenti separatisti di Talabani e Barzani, sono ora passati dalla parte dei loro ex nemici dai quali hanno ricevuto posti di una certa responsabilità.

Mentre la tragedia irachena affonda sempre più nel sangue la «coalizione dei volenterosi» continua a sciogliersi come neve al sole: secondo autorevoli fonti diplomatiche giapponesi il governo di Tokyo avrebbe intenzione di ritirare i suoi 550 soldati «non combattenti» – mandato questo al quale si sono attenuti scrupolosamente chiedendo la protezione necessaria ad altri contingenti – dalla città di Samawa nel sud dell’Iraq, entro il dicembre del 2005. L’impopolarità della disastrosa avventura irachena, e la consapevolezza che invece di marciare verso la democrazia, come continuano penosamente a sostenere sia il governo che parte del centro-sinistra «neocon», l’Iraq è stato messo dagli Usa sui binari delle divisioni etnico-confessionali e quindi del caos e della guerra civile, si va diffondendo non solo tra gli alleati degli Usa ma anche all’interno degli States. Il costo della guerra in Afghanistan e in Iraq ha ormai superato i 300 miliardi di dollari – con l’accordo raggiunto ieri tra Camera e Senato su un bilancio suppletivo di altri 82 miliardi di dollari – mentre sulla base di un sondaggio «Cnn-USA Today» l’invasione dell’Iraq è approvata oggi solamente dal 41% dell’opinione pubblica americana (rispetto al 48% di febbraio) mentre il 57% ritiene che quella guerra non dovesse essere fatta.